In ogni ambito artistico è impossibile non avere un padre e quindi essere “figli di nessuno”, diceva giustamente Jerzy Grotowski, uno dei grandi utopisti e innovatori della scena teatrale del secolo scorso. Si tratta in effetti di una verità piuttosto innegabile, che talvolta può costituire una fortuna, ma spesso può rivelarsi una sventura o comunque un motivo di enormi difficoltà, soprattutto quando il “padre” in questione non è soltanto un’icona della cultura, un’immagine ideale e una figura di riferimento in ambito artistico, ma è anche – molto più concretamente, si vorrebbe dire banalmente – il padre naturale. Nonché personaggio in chiaroscuro, complesso, problematico, irrisolto, costantemente in lotta coi demoni interiori.
Il pensiero corre ovviamente a Franz Kafka e alla sua terribile Lettera al padre, una sofferta e dolorosa confessione autobiografica che è nello stesso tempo una dichiarazione di poetica e una visione del mondo. Ma il padre di Kafka era un commerciante, non un’artista. Il caso più eclatante è piuttosto quello rappresentato dai figli – in particolare Klaus, il maggiore e artisticamente più dotato – di uno dei più grandi narratori del Novecento, Thomas Mann, che ha scritto pagine meravigliose sulle inquietudini e sul “disordine e dolore precoce” della giovinezza, ma in quanto padre ha avuto comportamenti semplicemente inqualificabili.
Il fatto, poi, che le difficoltà e i problemi abbiamo trovato espressione e soluzione in altissime e sublimi figurazioni artistiche non contribuisce affatto a rendere meno complicata e scivolosa la questione padre/figlio. Non è quindi il caso di scomodare il Dottor Freud o il celebre passo de I Fratelli Karamazov di Dostoevskij, dove si dice che il figlio, per vivere e svilupparsi in autonomia, deve “uccidere” metaforicamente la figura del padre, ma è fuori di dubbio che la vita di Linn Ullmann, figlia di Ingmar Bergman e Liv Ullmann, è stata fortemente condizionata dalla presenza/assenza di un padre tanto ingombrante.
"Il posto delle fragole"
Attualità culturale 13.07.2018, 17:05
Contenuto audio
Lo ha raccontato la stessa Linn (nata nel 1966, il cui autentico nome è Karin Beate, mentre il cognome lo ha preso dalla madre) in un libro dal titolo Gli inquieti, dove gli “inquieti” sono tutti i personaggi principali della narrazione, che è costruita come un romanzo, ma è evidentemente autobiografica, anche se i nomi non compaiono mai: la figlia, io-narrante che si svela e si confessa proprio nel suo continuo nascondersi tra le figure del padre e della madre; il padre, grandissimo regista ma uomo intimamente scisso, sensibilissimo e respingente, capace di affetti profondi e grandi entusiasmi, di slanci sinceri ma anche di rabbie immotivate e repentine ripulse, e infine la madre, ai tempi non ancora grandissima ma già grande attrice, divisa tra il ruolo pubblico e il ruolo privato di madre, in una sorta di costante scissione paradossalmente risolta o comunque mitigata nel dubbio di non essere all’altezza né dell’uno né dell’altro ruolo.
Ci sarebbero insomma tutti gli elementi per parlare di una specie di autobiografia direttamente obliqua o comunque obliquamente indiretta, se è lecito dirlo con un ossimoro, perché la prima impressione è che Linn Ullmann parli principalmente di se stessa parlando degli altri. Ma ad una lettura più attenta (la Ullmann è una discreta narratrice, non priva di una certa qualità di scrittura e molto abile nel costruire intrecci, come dimostrano i suoi romanzi editi anche in traduzione italiana) si capisce che è vero il contrario, perché l’io-narrante - alias Linn - si annulla o comunque stempera il proprio personaggio, e in questo modo pone in forte risalto le figure della madre e soprattutto del padre.
Il mondo di Ingmar Bergman (1./5)
Blu come un'arancia 10.09.2018, 18:50
Contenuto audio
Il procedimento, come rivelano i numerosi riferimenti all’idea proustiana della vita quale dialettica irrisolta tra “tempo perduto” e “tempo ritrovato” (il Proust di Sodoma e Gomorra e delle “intermittenze del cuore” è il modello dichiarato dell’autrice, che lo cita a più riprese in maniera molto precisa e meditata), non è nuovo e potrebbe perfino sembrare un po’ logoro, soprattutto se applicato alla reinvenzione del materiale autobiografico. Linn Ullmann riesce tuttavia a conferirgli nuova linfa e sfumature inattese proprio partendo da alcuni dati molto concreti, che sembrano quasi indicazioni sceniche o suggerimenti di regia.
Il periodo è la seconda metà degli anni Sessanta, su un’isola del Mar Baltico nel nord-est della Svezia: lui, il mai nominato ma ovviamente riconoscibilissimo Ingmar Bergman, è un famoso regista svedese che ha già regalato alla storia del cinema alcuni capolavori assoluti, ma è anche un uomo nel quale convivono una tutt’altro che nietzscheana légèreté e uno strenuo rigore luterano nei rapporti interpersonali e nella gestione degli affetti più intimi. Lei, l’io-narrante Linn Ullmann, è sua figlia, la più giovane (l’ennesima avuta da una madre differente), che ogni estate, fin da bambina, andrà a trovarlo nella leggendaria casa di pietra in mezzo ai boschi, sull’Isola di Fårö. E infine c’è la madre e compagna del padre, Liv Ullmann, che in tutta la vicenda svolge un ruolo stranissimo, perché la sua presenza si avverte quando è assente, e viceversa. Ha detto giustamente Linn: «Io ero figlia “di lui” e figlia “di lei”, ma non ero la “loro” figlia».
Poi ci si sposta intorno al 2010: il tempo è passato e sembra definitivamente perduto, il padre è morto ormai da alcuni anni, e la figlia, che intanto è diventata una scrittrice, avverte l’impulso tanto irrazionale quanto irresistibile di ricostruire il proprio passato e quello dei genitori attraverso il filtro della scrittura, alla quale è affidato il compito di ritrovare e reinventare letterariamente il tempo perduto. Si scrive “dopo”, sempre, perché in ultima analisi si vive sempre “dopo” e gli eventi acquistano un senso solo nella dimensione lustrale della memoria. L’io-narrante Linn, nello specifico, vuole proustianamente “ritrovare” il tempo nella scrittura, vuole capire e penetrare la propria inquietudine penetrando nell’inquietudine dei due esseri che l’hanno messa al mondo. E’ un compito arduo, ma il tentativo riesce, con esiti perfino sorprendenti.
«Le uniche mappe e cartine a cui fare riferimento erano nella memoria o nell’immaginazione, ma erano abbastanza chiare», dice la suggestiva e incoraggiante frase di John Cheever posta opportunamente in esergo al volume. L’io-narrante si immerge infatti con piena fiducia nei ricordi, innescando una specie di reazione a catena fatta di immagini, sensazioni e parole che nel loro insieme, in un misto di finzione e inevitabile ricostruzione psicologica a posteriori, vanno a comporre un quadro completamente nuovo, specialmente per quanto riguarda la figura del padre. «La verità è che non si sa mai molto della vita altrui, men che meno di quella dei tuoi genitori», dice Linn in un passo estremamente rivelatore, ma la stessa Linn smentisce felicemente questa verità portando alla luce molti risvolti inediti della vita del padre, in particolare degli ultimi anni, segnati da una malattia grave e invalidante.
Leggendo Gli inquieti si chiariscono infatti parecchi tratti dell’universo umano e poetico di Ingmar Bergman e delle sue tante, troppe “ore del lupo”, inflitte a se stesso e agli altri. Ma soprattutto – ed è forse il merito essenziale del libro – si coglie il senso di una frase all’apparenza molto sibillina contenuta nell’autobiografia Lanterna magica, quando il regista, rifacendosi dichiaratamente al modello costituito dallo Strindberg di Sposarsi, L’autodifesa di un folle e il teatro onirico, aveva scritto che lo scopo della sua arte consisteva nel disperato tentativo di evocare e impetrare «l’incerta sorveglianza di un dio distratto».
Gli inquieti svela finalmente chi o cosa fosse quel “dio distratto” e spiega per quale motivo la sua sorveglianza fosse così drammaticamente “incerta”. Perché la sorveglianza del “dio distratto”, che il padre ha lasciato idealmente in eredità alla figlia, consiste nella capacità di fissare in volto la Medusa e di venire a patti con le vertiginose verità dell’esistere, il tempo, la mortalità e i limiti della memoria.
Lui diceva che le cose si perdevano. Che le parole sparivano. Se fosse stato più giovane, avrebbe scritto un libro sull’invecchiare. Ma adesso, ormai vecchio, non ne era più in grado. Questo ragionamento portò uno di noi, non ricordo più chi dei due, a uscirsene con l’idea di scrivere un libro insieme. Io e mio padre avevamo fatto un programma considerando che la morte avesse già cominciato a impossessarsi di noi.
Linn Ullmann, Gli inquieti