Nemmeno i grandissimi sfuggono alla regola, che anzi confermano e ribadiscono: in ambito artistico, si è sempre “figli” di qualcuno. E’ il caso di un’icona della cultura del secondo Novecento come Ingmar Bergman, che è “figlio” assolutamente legittimo di “padri” tutt’altro che oscuri e trascurabili. Perché il suo teatro e il suo cinema (in odine di importanza: il cinema, per Bergman, è sempre stato una continuazione del teatro con altri mezzi) discendono direttamente dalla grande letteratura scandinava che nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento si è interrogata a fondo sulle cose ultime e ha contribuito a mutare radicalmente l’immagine dell’uomo, tracciando anche nuovi contorni all’interno dei quali interpretare i rapporti interpersonali.
Il mondo di Ingmar Bergman (1./5)
Blu come un'arancia 10.09.2018, 18:50
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Si può quindi individuare un percorso ben preciso che parte dalla drammaturgia dei “rivoltosi scandinavi” (così definiti nella Parigi fin de siècle) Henrik Ibsen e August Strindberg -norvegese il primo, svedese il secondo- e arriva direttamente allo svedese Bergman. Con Ibsen, infatti, ha inizio un modo di considerare la morale, la società e il costume che non edulcora i rapporti tra i personaggi e non appiattisce la loro psicologia. Il tratto distintivo della poetica di Bergman consiste proprio nel recupero di questa prospettiva e nello scandaglio di elementi fortemente perturbanti, che per Ibsen si limitavano quasi esclusivamente al cosiddetto “salotto borghese” e invece in Bergman si aprono a dimensioni più ampie, col “salotto borghese” che si trasforma in simbolo e metafora dell’intera condizione umana. Le difficoltà nelle relazioni sociali e la consapevolezza che il maschile e il femminile non sempre sono dialoganti diventano quindi la cifra di un’inquietudine più profonda.
Ecco perché l’opera di Bergman, per quanto molto differenziata, si dirama a partire da un preciso nucleo tematico che nello specifico teatrale è costituito dalla rilettura molto cinematografica di un testo quale “Casa di bambola”, con Liv Ullmann nel ruolo di Nora, mentre in ambito cinematografico è costituito dal più teatrale dei film, “Scene da un matrimonio”, dove “Casa di bambola” è citato non a caso in una delle scene iniziali, con le prosaiche difficoltà di una convivenza che rimandano a una dimensione più ampia, non solo sociale e latamente esistenziale, ma anche ontologica e metafisica: la vita come esilio da una totalità perduta ma non meglio definibile.
L’agnostico Bergman condivide questa dimensione di inquietudine non solo con gli “antenati” Ibsen e Strindberg, ma anche col connazionale e Premio Nobel Pär Lagerkvist, la cui opera letteraria ruota intorno a un unico problema: capire non tanto se Dio esiste o meno, ma piuttosto se Dio è presente nella vita degli uomini e se c’è la possibilità di una comunicazione. Lagerkvist, nello specifico, si definiva “un credente senza fede e un ateo religioso”: è una definizione che rende molto bene anche l’universo umano e poetico di Bergman, dove c’è una continua e mai risolta dialettica di fede e dubbio, trascendenza e immanenza, che si delinea soprattutto ne “l settimo sigillo” (prima ancora nel testo teatrale “Pittura su legno”) come riflessione metafisica sul silenzio di Dio, ma poi, in altri film come “Il posto delle fragole”, “Persona”, “L’immagine allo specchio” e non da ultimo “Scene da un matrimonio”, diventa una riflessione sui dati di fondo della condizione umana quali la solitudine, i labili confini dell’io, l’opacità delle cose e l’imperscrutabilità del destino, il passare del tempo e l’incombere della morte.

Ingmar Bergman e Liv Ullmann
Larvatamente autobiografico (Bergman non è mai stato quel che si suol definire un marito e padre esemplare) e tutto sommato poco capito dalla cultura italiana dell’epoca (erano gli anni del dibattito -molto spesso ideologico e strumentale- sull’istituto del divorzio e la riforma del diritto di famiglia), “Scene da un matrimonio” nasce come produzione televisiva nel 1973 e solo in seguito, nei primi mesi del 1974, diventa un film destinato alle sale. Nell’originaria versione televisiva ha una durata di quasi cinque ore, mentre la versione cinematografica internazionale (quella doppiata anche in italiano) dura poco meno di tre ore. Leggendo la sceneggiatura completa, pubblicata in Italia da Einaudi nel 1974 col titolo “Scene di vita coniugale”, si capisce fino che punto Bergman sia stato costretto a tagli sostanziali e molto dolorosi.
Ma anche nella versione ridotta “Scene da un matrimonio” rimane con ogni evidenza il suo film più amaro e crudele e si configura come una devastante discesa negli abissi della condizione umana, perché il racconto di quasi dieci anni nella vita dei coniugi Marianne (Liv Ullmann) e Johan (Erland Josephson) - le difficoltà del loro matrimonio, la sepa razione, il divorzio e il finale che li vede uniti nella reciproca confessione degli errori e dei fallimenti - non è soltanto il racconto della crisi e della deriva di una coppia, ma è principalmente la constatazione che c’è un errore immanente alla vita stessa: se è impossibile vivere veramente (a causa del “brutto potere” della disgregazione, come lo ha definito Primo Levi sulla scorta di Leopardi), è quindi impossibile amare veramente. Il tutto, va da sé, declinato in chiave scandinava e luterana, con talune ruvidezze nordiche difficili da metabolizzare nei paesi cattolici dell’Europa mediterranea, a parziale giustificazione del fatto che “Scene da un matrimonio”, a distanza di interi decenni, resta un film che dalle nostre parti deve ancora essere recepito nella sua più intima sostanza.
Anche perché nella sua più intima sostanza - che affonda in abissi non propriamente gradevoli e ospitali - c’è l’altro grande “padre”, August Strindberg, un autore che Bergman non ha mai smesso di frequentare, riproponendone i temi in infinite variazioni sia sulla scena che sullo schermo. Lo ha riconosciuto lo stesso Bergman in un passo dell’autobiografia “Lanterna magica”, parlando di una messinscena de “Il sogno”, quando ha scritto che la propria arte, esattamente come quella di Strindberg, prende spunto dalla «scissione dell’Essere» ed è un tentativo di fornire «un panorama della vita umana sotto l’incerta sorveglianza di un dio distratto».
Senza l’idea strindberghiana della vita come “vivisezione” e “lotta di cervelli” non ci sarebbe stato né il regista teatrale, né il cineasta Bergman: senza Verso Damasco non sarebbe mai esistito “Il settimo sigillo”, senza “Il Sogno” non sarebbero esistiti “L’immagine allo specchio” e “Fanny e Alexander”, ma gli esempi sono tantissimi. L’esempio più significativo è rappresentato proprio da “Scene da un matrimonio”, che può essere considerato come una continuazione del ciclo narrativo “Sposarsi” e più ancora del testo scenico “Danza di morte” (conosciuto anche come “Danza macabra”), ma in altri tempi e in altre situazioni (anche se tra i modelli non bisogna dimenticare altri tre connazionali: Stig Dagerman, genio tormentato e enfant prodige delle lettere svedesi, che si tolse la vita a soli 31 anni nel 1954; il romanziere e drammaturgo Hjalmar Söderberg, in particolare col romanzo “Il gioco serio”, e Ola Hansson, con la raccolta di novelle “Sensitiva amorosa”, che nella Svezia pietista e bacchettona degli anni Ottanta del diciannovesimo secolo ebbe un effetto dirompente).
Il capitano Edgar e sua moglie Alice, nel dramma di Strindberg (poi magistralmente ripreso, riscritto e rimodellato da Friedrich Dürrenmatt nel sulfureo “Play Strindberg”, coi due coniugi che si scontrano come boxeur all’interno di un ring), vivono isolati in una specie di fortezza a picco sul mare, e lì si dilaniano fino al reciproco annientamento (che non coincide con la morte fisica). Marianne e Johan, nelle sei lunghe scene del film di Bergman, vivono nella Svezia progressista e socialdemocratica del “Folkhemmet” (la famosa “terza via” tra comunismo e capitalismo) e del welfare, nel cuore del cosiddetto mondo civilizzato, con tutti i comfort garantiti dal presunto benessere borghese: «Perfect people travel in Volvos / Into the sunsets, into the distance», canterà un ventennio dopo il caustico Graham Parker nel brano di ambientazione scandinava “Platinum Blonde”.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/musica/speciali/Graham-Parker--1974881.html
Eppure si dilaniano fino al reciproco annientamento, che anche nel loro caso non coincide con la morte fisica. Per quale motivo, resterebbe da chiedersi, e infatti se lo chiede anche Johan in una delle scene maggiormente rivelatrici: «Tutto è andato all’inferno, chissà perché… ».
Ci si può forse accontentare della risposta fornita dallo stesso Johan nella meravigliosa scena finale: «Penso che alla mia maniera egoista e imperfetta ti amo. A volte credo che tu mi ami alla tua maniera tempestosa che mette in subbuglio l’animo. Credo senz’altro che tu ed io ci amiamo. In un modo imperfetto, di questo mondo. Qui, in tutta semplicità, nel pieno della notte, in una casa buia, in qualche parte del mondo, io me ne sto effettivamente a sedere e ti tengo stretta. E tu mi tieni stretto a te. Non posso affermare di sentire nessun’altra comunanza col prossimo». Ma in ultima analisi non c’è una vera risposta, e comunque quella fornita dall’allora 55enne Bergman in occasione dell’uscita del film è più che sufficiente nella sua raggelante laconicità: «Ci sono voluti due mesi e mezzo per scrivere queste scene, c’è voluta la vita di un adulto per viverle».