La fantascienza è in crisi, si dice in giro.
Si dice che la realtà ha costruito – e sta ancora costruendo – sceneggiature più perfette di quelle dei film, racconti più incredibili di quelli immaginati dagli scrittori. E in effetti, quando Elon Musk presenta al pubblico i suoi robot umanoidi “in vendita a breve”, e sono incredibilmente simili a quelli di Io Robot, è difficile non pensare che stia distruggendo un pezzo del nostro immaginario.
Si dice che la fantascienza non riesca più a colpire i nostri cervellini sovraccarichi, in tempi di overdose mediatica: non solo siamo bombardati di immagini reali, ma allo stesso tempo le immagini fasulle stanno diventando indistinguibili da quelle reali, fino a renderci completamente insensibili a ogni rappresentazione spettacolare. Le astronavi di Star Wars (per le quali George Lucas negli anni Settanta aveva fatto costruire da zero macchine, computer, cineprese che non esistevano), oggi non impressionano nessuno.
Si dice che non abbiamo più nemmeno il livello di attenzione necessario per capirla, e di conseguenza godercela, la fantascienza. Vedere o leggere una storia di fantascienza significa infatti mettere da parte alcuni dei nostri presupposti sulla realtà attuale e cercare di assorbire una nuova serie di regole, per calarci in un mondo altro. Cogliere gli spunti che questo nuovo mondo ci offre, imparare come sia diverso dal nostro, richiede un certo livello di attenzione. Mentre scrivevo queste prime venti righe, il mio telefono ha vibrato quattro volte.
Si dice, infine, che ci sia un forte elemento nostalgico nella nostra cultura, più forte che nelle epoche precedenti. Il Novecento ha massificato la cultura e ci ha lasciato miti che appaiono irripetibili, proprio perché figli di una cultura che per la prima volta nella storia era alla portata di tutti, e ancora non era frammentata come quella dei Duemila. Quindi continuiamo a guardare verso quei vecchi miti, invece di cercarne di nuovi.
Tutto vero, per carità. Eppure.
Eppure la fantascienza continua a ripresentarsi davanti ai nostri occhi come strumento fondamentale di riflessione, per capire il nostro tempo e quello che verrà. Ma soprattutto per farci godere di qualche bella storia, nel frattempo.
Nel caso di Black Mirror, più di una: al 2025, per la precisione, siamo arrivati a quota 32, divise in sette stagioni tra Sky e Netflix. Tutte capaci di dare corpo alle ansie contemporanee e offrire qualche interessante visione del futuro, tutte inserite all’interno della tradizione anglosassone delle serie televisive antologiche di genere. Black Mirror è, in questo senso, nostalgica come i nostri tempi vogliono: ripropone una formula amatissima del secolo scorso, rimasta nell’amigdala di una generazione.
Il creatore e showrunner inglese Charlton “Charlie” Brooker ha infatti detto più volte – era evidente, ma una conferma ufficiale fa sempre piacere – che l’ispirazione per la serie che ha vinto sei premi Emmy tra il 2012 e il 2018 arriva da classici della tv britannica e americana del Novecento: Tales of the Unexpected (in italiano Il brivido dell’imprevisto) del 1979, Night Gallery (Mistero in galleria) del 1970 e soprattutto Ai confini della realtà (The Twilight Zone), la celeberrima antologia fantastica della CBS che dalla fine degli anni Cinquanta ha portato sullo schermo racconti scritti, tra gli altri, da Richard Matheson e Ray Bradbury.
Black Mirror è a tutti gli effetti l’Ai confini della realtà del ventunesimo secolo. La serie di Rod Serling ha lanciato nel mainstream pop racconti che affrontavano questioni esistenziali e filosofiche legate alla moderna civiltà tecnologica, quella di Charlie Brooker li ha aggiornati, adattandoli ai nostri tempi accelerati.
Ai confini della realtà era a sua volta figlia dell’epoca d’oro americana della letteratura fantastica, appena precedente alla messa in onda della serie, e dei fumetti delle EC Comics (in particolare Weird Science e Weird Fantasy), che erano stati appena affossati dalla caccia alle streghe messa in piedi dalla destra conservatrice di allora, che considerava horror e fantascienza come strumenti di corruzione dell’infanzia. I finali a sorpresa dei fumetti EC, che spesso ribaltavano il tavolo narrativo con colpi di scena bizzarri, diventavano in Ai confini della realtà sempre più crudeli, mentre quelli di Black Mirror sono ancora più devastanti e senza speranza. Ma nonostante questi aggiustamenti, l’impianto rimane simile.
Rod Serling aveva creato Ai confini della realtà perché voleva parlare dei problemi della società americana, ma sapeva che la televisione non era libera come la letteratura: i grandi network dovevano (allora, come oggi) evitare argomenti troppo controversi all’interno degli spazi di intrattenimento, per evitare di infastidire sponsor e inserzionisti. Così, se avesse scritto una storia che raccontava il razzismo nel Sud degli Stati Uniti, Serling avrebbe dovuto lottare con il network per ogni riga di sceneggiatura. Ma quello stesso tema presentato in un contesto fantastico, passava senza problemi attraverso le maglie della censura. Ai tempi di Serling, i grandi temi di discussione erano la proliferazione delle armi atomiche, la lotta per i diritti civili delle minoranze, la deriva autoritaria del governo (ad esempio, negli anni del maccartismo). Ma anche, per andare su argomenti meno angoscianti, le prospettive nuove aperte dall’esplorazione spaziale. Come ogni buon prodotto di fantascienza, Ai confini della realtà affrontava quelle questioni epocali con sguardo critico: ecco la parola chiave. Forse si trattava del primo, vero prodotto di intrattenimento critico della televisione moderna.
Oggi, quella televisione critica è rappresentata da Black Mirror, che parla del nostro rapporto con i media e con la tecnologia, di economia e terrorismo, di privacy e lavoro. Ai confini della realtà arrivava sugli schermi negli stessi anni in cui Marshall McLuhan prima, Jean Baudrillard e Guy Debord poi, cominciavano a lavorare sulle loro teorie riguardo ai media, alla società dello spettacolo, all’iperrealtà. Oggi quelle teorie sono diventate realtà, a volte con inquietante precisione, e mentre nuovi intellettuali cercano di disegnare qualche mappa che ci aiuti a orientarci nell’epoca digitale (diciamolo una volta per tutte: il Novecento era semplice, al confronto), a un telefilm come Black Mirror rimane il compito di esprimere le angosce socio-esistenzial-filosofiche di una generazione: Ai confini della realtà svolgeva questo compito per i Baby Boomer, Black Mirror lo fa per Millennial e Gen Z.
Mettendo in fila i temi delle puntate viste fino a oggi, e guardandoli in parallelo con quelli svolti nei Sessanta da Ai confini della realtà, potremmo dire che in realtà sia cambiato poco. La televisione critica usa ancora oggi l’intrattenimento per parlarci di cosa significa essere umani; delle conseguenze di uno sviluppo tecnologico che non è e non sarà mai “neutrale”; di libertà e sorveglianza; della spettacolarizzazione della società; della nascita di nuovi paradigmi estetici. È cambiato tutto, non è cambiato niente, e non saprei dire se questo pensiero sia rassicurante o inquietante. L’unica cosa di cui sono certo è che Black Mirror, alla settima stagione, sia di nuovo una delle migliori visioni di questi anni, in un panorama televisivo che appare spesso piatto e sconfortante.

I bambini dicono sempre la verità
Il divano di spade 19.04.2025, 18:00
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