Filosofia e Religioni

Umorismo

Cosa ci fa ridere e perché?

  • 26.11.2023, 09:47
  • 27.11.2023, 11:25
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Di: Joshua Babic 

Un cavallo entra in un bar e…data l’evidente pericolosità della situazione, gli avventori si alzano e fuggono via. Probabilmente ve la ricordavate diversa questa barzelletta, con il barista che chiedeva al cavallo: «Perché quel muso lungo?». Mentre la seconda barzelletta fa leva sull’ambiguità dell’espressione “muso lungo”, che potrebbe applicarsi al cavallo sia nel suo senso metaforico di “imbronciato” che nel suo senso letterale, la prima fa ridere proprio perché, in sé, non fa ridere. O meglio, ciò che ci fa ridere della prima barzelletta è l’assenza della battuta finale (la punchline), quella che, data l’ovvia impostazione della barzelletta, ci aspettavamo. In altre parole, non è il testo in sé che ci fa ridere, quanto piuttosto il fatto che le nostre aspettative siano state disattese. Ma com’è possibile che due meccanismi così differenti tra di loro, cioè il doppio senso e la delusione delle aspettative, siano entrambi alla base di un testo umoristico? Ponendo la questione più in generale, cos’è l’umorismo e cosa rende un testo, una conversazione, una situazione umoristici?

Nella storia della filosofia, le teorie dell’umorismo sono state classificate in tre gruppi principali: la teoria della superiorità, la teoria del sollievo e la teoria dell’incongruenza.

La teoria della superiorità ha origine già in Platone e in Aristotele, ma trova la sua espressione più esplicita nel pensiero di Thomas Hobbes, secondo il quale «La passione del riso non è altro che un improvviso senso di gloria che sorge da un’improvvisa consapevolezza di qualche superiorità insita in noi, al paragone con le debolezze altrui, o con una nostra precedente debolezza» (Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, La Nuova Italia, 1972, pp. 69-70.). Secondo la teoria della superiorità, quindi, l’umorismo ha origine nella sensazione di piacere, di soddisfazione, di gioia, nei confronti della sfortuna altrui (in tedesco c’è la parola Schadenfreude proprio per indicare questa sensazione). Se la teoria della superiorità spiega bene l’umorismo di gaffe, errori, bloopers, di situazioni e incidenti di comicità involontaria (basti pensare a un programma televisivo come Paperissima), essa risulta inadeguata quando si tratta di altri tipi di umorismo, ad esempio quello legato ai giochi di parole, non riconducibili alla sensazione di superiorità nei confronti delle disgrazie altrui.

La teoria del sollievo, che ha avuto in Herbert Spencer, John Dewey e Sigmund Freud i suoi principali esponenti, si basa sull’idea che l’umorismo è legato al rilascio di una pressione mentale. Ridere alla fine di una barzelletta o davanti a un film non sarebbe nient’altro che un atto liberatorio, uno sfogo, una maniera di sbloccare una tensione nervosa. Il superamento del modello freudiano della mente, sul quale si basa la teoria del sollievo, ha fatto sì che oggigiorno pochi autori vedono in quella del sollievo una spiegazione adeguata dell’umorismo. 

La teoria dell’incongruenza, forse la più celebre delle tre, venne sostenuta e articolata da filosofi come Immanuel Kant, Arthur Schopenhauer e Søren Kierkegaard. Secondo Kant, ad esempio, «In tutto ciò che desta un vivace scoppio di riso, dev’esservi qualcosa di assurdo (…). Il riso è un affetto che nasce dall’improvviso risolversi in nulla d’una attesa spasmodica. Ma proprio questo esito (…) indirettamente causa una viva allegria momentanea.» (Kant, Critica del Giudizio, UTET, 1999, p. 267). L’umorismo, quindi, nascerebbe da qualcosa di incongruo, qualcosa che disattende le nostre aspettative o che trasgredisce le nostre categorie mentali (cfr. la barzelletta in apertura). La teoria dell’incongruenza spiega molto bene vari tipi di umorismo, quello demenziale, quello surreale, quello nonsense – basti pensare ai meccanismi che sottostanno a film come L’aereo più pazzo del mondo, Frankestein Jr., Una pallottola spuntata, agli sketch dei Monty Python, alle Tragedie in due battute di Achille Campanile, agli oggetti surreali di Duchamp o di Dalì, alla musica di Frank Zappa o di Elio e le Storie Tese, a comici come Nino Frassica, Maccio Capatonda o Valerio Lundini.

Come spesso accade in filosofia, la semplicità della domanda cozza con la difficoltà nel trovare una risposta soddisfacente e completa. Ciascuna delle teorie che abbiamo delineato si concentra solo su uno degli aspetti che caratterizzano l’umorismo, fornendo quindi una risposta parziale alla domanda “che cos’è l’umorismo?”.  C’è poi il problema che non sempre l’umorismo esula dal contesto, anzi, la stessa frase può risultare umoristica o meno a seconda della circostanza. Celebre in questo senso è la più antica testimonianza di una barzelletta ambientata in un bar, risalente al tempo dei Sumeri (4500-1900 a.C.): «Un cane entra in un bar e dice “Non vedo niente. Aprirò questo/a qua”». Il suo significato rimane ad oggi misterioso in quanto non abbiamo a disposizione informazioni più dettagliate circa il contesto in cui essa si collocava.

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Quando il sumero faceva ridere

Un attimino 06.11.2023, 11:30

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  • Andrea Fazioli e Marco Pagani

In conclusione, l’umorismo è senza dubbio un fenomeno complesso, difficile da teorizzare e richiede, a seconda del caso, una moltitudine di spiegazioni. Come afferma Salvatore Attardo, uno dei più noti esperti mondiali di humor studies e professore di linguistica alla Texas A&M University, le tre teorie dell’umorismo che abbiamo visto, più che in competizione, dovrebbero essere considerate come «tre aspetti complementari di una gigante, onnicomprensiva super-teoria» (Attardo, The Linguistics of Humor, Oxford University Press, 2020, p.71, mia traduzione).

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