“Guarda in cielo, e conta le stelle, se puoi contarle. Tale sarà la tua discendenza” (Genesi 15,5). Così dice il Signore ad Abramo in celebri versetti che, segnando l’inizio della storia di un popolo, segnano anche la stretta connessione tra l’imperscrutabilità dei disegni divini, l’imprevedibilità dei cammini degli uomini, ma anche il nesso segreto tra i mondi stellari e quelli terrestri.
Sempre, da quando siamo Sapiens, o da quando abbiamo cominciato ad assumere un andare eretto e abbiamo provato a spingere il capo all’indietro, il nostro sguardo è stato attratto verso le profondità notturne del cielo. Per contemplare il blu della volta sopra di noi, affascinati dalle piccole luci ammiccanti, dal grande disco bianco che vien dietro alla terra, desiderosi di indagarne il mistero. Di capire come mai le cose celesti sembrano regolate da un ordine regale che le porta a ripetere sempre gli stessi percorsi, con silenziosa calma, mentre quaggiù le cose che possiamo toccare – l’acqua e il fuoco, l’aria e la terra, così come il cuore degli uomini – sembrano entrare volentieri in conflitto tra di loro, e non c’è pazienza che riesca a quietarle.
Di fatto, il nostro modo di guardare non è sempre stato lo stesso. Non solo si è manifestato diversamente a seconda delle epoche, delle civiltà, degli individui, ma soprattutto oggi sembra che il nostro interrogare sia in affanno. Forse del cielo si sono svelate troppe cose che dovevano restare celate per continuare a suscitare meraviglia. Forse lo abbiamo invaso di troppi corpi estranei, forse ci siamo messi in testa di farne nuove colonie per i potenti della terra. Forse siamo turbati dal fatto di avergli fatto violenza, e inconsapevolmente temiamo una sua vendetta, simile a quella della terra che ci si sta rivoltando contro, per vendicarsi degli abusi che abbiamo perpetrato su di essa.
Fatto sta che oggi sembriamo, almeno noi del cosiddetto occidente – esclusi i bambini e pochi altri – aver perso ogni innocenza nel guardare le stelle.
Solo un secolo fa, nel 1925, nell’ultima pagina del suo libro La guardia bianca, Michail Bulgakov scriveva: “Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. La spada sparirà, ma le stelle resteranno anche quando le ombre dei nostri corpi e delle nostre opere non saranno più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Perché dunque non vogliamo rivolgere il nostro sguardo alle stelle? Perché?» Ora noi sappiamo che le cose non stanno così. Anche le stelle muoiono. E quelle che noi vediamo luccicare in cielo forse sono morte migliaia di anni luce fa.
Ma oggi sappiamo anche altro: che ha avuto inizio una nuova era di esplorazioni spaziali, che gli uomini più ricchi del mondo hanno in mente di colonizzare lo spazio extraterrestre per ricavarne mostruosi profitti che serviranno a rendere il mondo povero sempre più povero, e che a questo scopo hanno inviato nei cieli blu centinaia di satelliti che ci girano intorno: alcuni già esausti ma che continuano a solcare la notte, altri, circa 5’000 (i dati sono fluttuanti), al momento attivi e smaniosi – si fa per dire – di individuare modi di accrescere le ricchezze dei potenti e di gonfiare il peccato universale di dismisura.
Ci sono però altri esploratori, che percorrono vie diverse. E che, se non riescono a disinnescare la brama di potere e di denaro, tuttavia forse possono salvare quel senso di meraviglia che, secondo quanto sosteneva già Aristotele nella Metafisica, è il motore da cui parte il desiderio di scrutare il cielo e di conoscere i meccanismi del nostro stare al mondo. Di lì nasce il linguaggio della conoscenza, di lì il linguaggio della poesia e dell’arte. Uno di questi esploratori è il cosmologo Roberto Trotta, che insegna Fisica teorica alla scuola internazionale superiore di Trieste e Astrostatistica all’Imperial College di Londra. E che riscrive una storia dell’umanità a partire da quell’istante in cui qua e là, in luoghi diversi del pianeta, alcuni Sapiens hanno guardato ai movimenti degli astri, alle loro forme, alle loro congiunzioni, ai loro ricorsi non solo per ammirarne la stupefacente bellezza, ma anche perché era loro impossibile concepire che tutto quello sfolgorio di stelle pianeti, galassie, non avesse a che fare anche con i movimenti della terra. O meglio, che ogni piccolo frammento terrestre non fosse connesso con tutto ciò che fluttuava in quella strabiliante immensità. Tutto è partito, nella sua vicenda di esploratore, da un segnale luminosissimo nel cielo durante il primo incontro con la donna della sua vita, come racconta nel suo diario di bordo Il cielo stellato sopra di noi (Il Saggiatore): da quel momento è iniziata sì la sua ricerca scientifica, ma insieme il suo girovagare non solo in deserti e vette impervie da dove è possibile godere della magnificenza delle stelle. Ma anche nei luoghi più nebbiosi della terra, dove le brume, le nubi spesse, lo smog che oscurano la luce del giorno rendono possibile percepire che cosa sarebbe stato un mondo senza stelle, quale conseguenze avrebbe avuto sul vivere degli umani, incapaci di raccapezzarsi senza le guide celesti, impossibilitati ad intraprendere non solo ogni viaggio terrestre, ma anche ogni percorso nella conoscenza.
La volta celeste, nella sua inesorabile distanza dalla piccola terra che calpestiamo, ma anche nella fatale vicinanza ad ogni moto del cuore umano ha infatti un ruolo decisivo anche nel rapporto che intercorre tra la ricerca scientifica e il linguaggio poetico. Marco Pivato ripercorre le tappe delle collisioni, delle identità, delle differenze tra questi due universi, che solo un equivoco della modernità ha voluto tenere distinti, come se ci fosse una incompatibilità sostanziale – e non soprattutto formale – tra la ricerca dell’esattezza e della astrazione nel lavoro degli scienziati e la formulazione poetica della realtà (Noverar le stelle. Che cosa hanno in comune scienziati e poeti, Donzelli). Nell’antichità, certo, non era così. La parola non distingueva tra fatica e fatica, tra splendore e splendore: la fatica di esprimere l’essenza più vicina alla verità di ogni cosa e lo splendore di tutto ciò che l’uomo arriva a conoscere, non solo la bellezza, ma anche il dolore. Tutte le grandi civiltà antiche – dai sumeri agli egizi, dal popolo biblico a quello greco, e così via fino a Lucrezio e poi oltre – tutti i grandi poemi, espressi in mirabili versi, affrontavano il tema della conoscenza sia che si trattasse dell’origine degli dei, dell’universo, del cielo e della terra, sia che si trattasse della vita e della morte degli umani, dei loro conflitti, del loro lavoro, delle loro gioie, dei loro dolori. Con l’accrescersi delle conoscenze le due strade si sono diversificate, fino a non parlarsi quasi più. Ma i grandi spiriti hanno sempre saputo che “L’atteggiamento scientifico e quello poetico coincidono: entrambi sono atteggiamenti insieme di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione” Così diceva Italo Calvino (in numero del Menabò, luglio 1962). Ma basti pensare a John Milton, per la poesia, a Giordano Bruno, per la conoscenza, e a tutti quegli uomini e donne che hanno guardato al cielo per comprendere anche la terra, e viceversa.
Un’altra visione di infiniti cieli notturni e di “interminabili spazi” è quella che ci fornisce Giorgio Angrisola, nel suo Viaggio nell’arte delle stelle. Dalle Grotte di Lascaux alla Space Art (Donzelli). Qui lo spazio dell’indagine potrebbe sembrare più delimitato: il mondo dell’arte visiva, dagli inspiegati affreschi di Lascaux alle altre pitture rupestri, alle dimore celesti di tutta l’arte cristiana, fino alle tormentate elaborazioni dell’ultimo Matisse, di Fontana, di Kiefer, passando per le stupefacenti notti stellate di Van Gogh, non dice tutto l’inespresso che è rimasto dentro l’immaginazione degli artisti. Ma non credo che le nuove scoperte o le prossime guerre stellari ci lasceranno in silenzio e ci riporteranno con lo sguardo a terra. Lo spazio tra “arte e spinta all’oltre” è troppo connaturato alla decisione dell’umano di dare forma al suo vedere e al suo interrogare per lasciarsi sconfiggere da qualche assalto al cielo dei predatori di universo. Cambieranno i linguaggi, si sposteranno i confini del mistero, ma la disperazione per il presente non sarà mai così grande da ammutolire del tutto. Anzi, forse il nostro sentirci sempre più piccoli e insignificanti in quelle azzurre immensità ci aiuterà a dare senso e forma al nostro vivere sulla terra senza staccare gli occhi dal cielo. Forse, si sposta soltanto più in là il limite della conoscenza, si allarga lo spazio dello stupore, si ridisegnano i confini del nostro agire e creare. Pavel Florenskij così scriveva ai suoi figli in uno dei momenti più bui della sua vita e della vita del mondo: “Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all’aria aperta, e intrattenetevi da soli col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete”. Anche noi ci sentiamo offesi e dentro una tempesta. Anche le nostre anime sperano nella quiete.
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Alphaville 22.04.2025, 12:05
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