Apro a caso “Teneri bottoni”, uno dei degli esperimenti letterari più audaci di Gertrude Stein, e leggo:
Una nuova tazza con piattino. Entusiasticamente ferendo un bocciolo giallo annuvolato ed un piattino, entusiasticamente così è il morso nel piattino.
Farsi capire al volo non era certo la prerogativa della scrittura di Gertrude Stein. D’altronde l’autrice modernista lo confessava apertamente. Ad esempio, nella sua saga familiare, “C’era una volta gli americani”, un libro difficile, paragonabile per complessità, dimensioni e stile ai capolavori di James Joyce, “Ulisse” e “Finnegans Wake”, troviamo una sorta di dichiarazione poetica:
Io scrivo per me e per gli estranei. È l’unica maniera che ho di farlo.
La Stein (3 febbraio 1874 – 27 luglio 1946), che nella sua casa in rue de Fleurus 27 sulla rive gauche a Parigi si era circondata di artisti e scrittori innovatori e avanguardisti, è stata spesso tacciata di insensatezza. Alcuni critici dell’epoca la definivano illeggibile, incomprensibile, e dunque priva di ogni valore letterario, tant’è vero che negli anni ’30 il critico statunitense Mike Gold pubblica un articolo dal titolo “Gertrude Stein: A Literary Idiot”.
Quindi la Stein per alcuni è un genio, alla stregua dei grandi scrittori modernisti come Joyce, Pound, Eliot, per altri un’idiota se non addirittura una truffatrice che faceva passare per arte le sue farneticazioni.
C’è anche chi ha cercato una spiegazione, mi viene da dire, scientifica. In “Autobiografia di Alice B. Toklas”, l’opera che la porta al successo di pubblico, Gertrude Stein racconta di aver studiato ad Harvard e aver condotto, sotto la direzione di un giovanissimo William James, vari esperimenti sulla scrittura automatica, arrivando a pubblicare una ricerca scientifica nella rivista Harvard Psychological Review. Nel 1934 è nientemeno che B.F. Skinner, il celebre psicologo statunitense, ad ipotizzare che gran parte della produzione letteraria di Stein, quella che si avventura nel nonsenso, non sia altro che un grande esperimento di scrittura automatica.
E allora viene da chiedersi: ma che cos’è il non-senso? C’è un celebre passaggio delle “Ricerche Filosofiche” dove Wittgenstein spiega questo concetto in maniera suggestiva. Dire che una certa frase non ha senso equivale a delimitare lo spazio del linguaggio. Ma quando si traccia un confine, dice il filosofo austriaco, si possono avere diverse ragioni. Delimitare un’area può fare anche parte di un gioco nel quale i giocatori devono saltare oltre il confine.
Ecco, Gertrude Stein si è confrontata con i limiti del linguaggio, ci ha “sbattuto contro la testa”, li ha spinti, li ha superati, li ha testati, ha fatto a pezzi la grammatica e il significato, senza però perdere di vista il mondo con le sue cose ordinarie come tazze, piattini, ombrelli, patate, arance e così via. Un’operazione, la sua, analoga a quella dei pittori Cubisti che scomponevano, frammentavano e poi ricomponevano liberamente bicchieri, bottiglie, vasi. E non a caso lo stile letterario della Stein è stato definito “cubismo verbale”.
Gertrude Stein, di cui quest’anno ricorrono centocinquant’anni dalla nascita, lungi dall’essere solo l’amica di Picasso, Braque, Matisse, quella del celebre salotto ritratto nella commedia “Midnight in Paris” di Woody Allen, è stata una profonda innovatrice, riuscendo a ispirare intere generazioni di scrittori che, attraverso la sperimentazione, hanno saltato oltre il confine linguistico prestabilito.
150 anni dalla nascita di Gertrude Stein
Alphaville 02.02.2024, 11:45
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