Questo 25 aprile si festeggiano gli ottanta anni della fine della guerra, della liberazione d’Italia dall’occupazione nazista e dal fascismo. Una ricorrenza davvero importante.
Non possiamo accettare che questo 25 aprile scivoli via nella retorica e dell’assuefazione che, soprattutto, i giovani provano verso le ‘feste civili’. Che siano l’otto marzo, il primo maggio, il due giugno. Tanto più in tempi come questi: rapidi, discorsivi e superficiali. Fino al punto di essere ormai consapevoli del possibile effetto paradosso di queste ricorrenze, quello di ottenere addirittura l’effetto contrario allo scopo voluto.
Ma non deve avvenire per questo 25 aprile. Non di fronte alla svolta epocale che ci sta travolgendo. Bisogna sempre diffidare del termine epocale: troppa drammatizzazione, poca precisione, non disamina puntuale dei fatti.
Eppure oggi siamo davvero di fronte a un cambio di epoca. La fine dell’ordine fondato sul diritto internazionale che faticosamente la comunità internazionale aveva costruito alla fine della seconda guerra mondiale, al quale si era accodata anche l’Unione sovietica, aveva favorito gli organismi sovranazionali. Producendo un sentire comune, nelle coscienze e nelle comunità, volte al senso universalistico e collaborativo. Alla libertà e alla democrazia.
La fine di tutto ciò, del nostro mondo, sembra irreversibile: ne avevamo avuto già avuto più che avvisaglie significative ma ora tutto sembra precipitare improvvisamente. Un multipolarismo disordinato. Foriero solo di guerre e di instabilità. Di sovranismi nazionalistici.
I nuovi imperatori tecno-autoritari criticano wochismo e gender e poi ne sono proprio loro, i Trump e i Musk, gli interpreti più scatenati: cancellazione della storia e dei migliori valori dell’occidente, e incarnazione, nelle loro stesse persone, del trans-umano e del post-umano, in tutte le varianti. L’applicazione tecnica all’umano che ne snatura l’essenza.
Il monito di Mattarella
Il 25 aprile è una data ‘fondativa’ della nostra repubblica, come lo è l’antifascismo. In questo ottantesimo anniversario è davvero importante chiedersi come, e in che modo, possiamo fare sì che esso sia unitivo e non oggetto di scontro e divisione.
Data tra le più simboliche, il 25 aprile è sembrata, fino ad ora, resistere alle divisioni ma non sempre alla retorica, resta però l’archetipo della nostra più recente identità nazionale.
E come è possibile farla rivivere, nella sua pienezza, proprio ora? Quando non solo l’Italia è divisa, ma lo è anche tutto il mondo, lacerato all’interno della stessa appartenenza all’Occidente? Che ne è della nostra memoria, del patrimonio di ricordi, proprio quando ne avremmo più bisogno?
Quando la polarizzazione investe tutti i campi, politici, culturali, etici - e non solo in Italia - e rende sempre più difficile trovare un terreno comune, una memoria condivisa anche se partendo da posizioni diverse?
In un’epoca non solo post-ideologica ma che neppure ricorda più il senso delle ideologie che sostenevano la guerra fredda, che ne può restare di quella memoria?
Non si potrebbe rispondere meglio a questi interrogativi di come ha fatto Mattarella nel discorso dell’ultimo dell’anno: “Si registra ovunque un fenomeno di evidente polarizzazione che tocca tanti aspetti della nostra convivenza. Appare sempre più difficile preservare lo spazio del dialogo e della mediazione all’interno di società che sembrano oggetto di forze centrifughe divaricanti, con una pericolosa riduzione delle occasioni di dialogo, di collaborazione, di condivisione. Si tratta di una dinamica che non riguarda soltanto la politica ma la precede e va molto oltre. Tocca ambiti sociali, economici, culturali, persino etici. Il pluralismo delle idee, l’articolazione di diverse opinioni rappresentano l’anima di una democrazia. Questo è il principio cardine delle democrazie delle società occidentali. Ma sempre più spesso vi appare la strada di una radicalizzazione che pretende di semplificare escludendo l’ascolto e riducendo la complessità alle categorie amico/nemico”.
Le memorie familiari
Il dibattito storiografico, in modi più o meno approfonditi, si è interrogato sulla memoria. Fino allo sfinimento. Il passato che non passa. Il bisogno di una memoria condivisa. Anche qui: sforzi più che lodevoli. Con la consapevolezza e l’onestà intellettuale nel preservare il ricordo e la memoria, e però sapendo, non di meno, discernere una giusta dose di oblio. Come nelle vite personali, la memoria può e deve essere selettiva e relativa a ciò che è davvero fondamentale. Se vogliamo sia interiorizzata e metabolizzata.
E, infine, non va mai dimenticato che la nostra è l’ultima generazione ad avere vissuto i tragici eventi novecenteschi attraverso i racconti vividi dei nonni e dei genitori.
E quello della memoria, tramandata in ambito familiare, ha un valore radicato, nel bene, come nel male, incommensurabilmente più profondo di qualsiasi fonte scritta. Un filtro soggettivo verso cui la storia orale ci suggerisce, ovviamente, molta cautela.
E che pure è così importante per dare conto e onorare quella particolare resistenza al nazifascismo che avvenne nel cuore della società civile, diffusa e scarsamente riconosciuta nei decenni seguenti la liberazione. Quella che si dimostrava non tanto e solo negli atti eroici ma nelle reti di aiuto e di soccorso clandestini di tante donne, contadini, medici, parroci, funzionari pubblici indispensabili a proteggere e a soccorrere materialmente e moralmente.
La nostra generazione ha potuto ascoltare queste memorie attraverso i ricordi dei familiari. Diversamente dai giovani che hanno assimilato questi tragici eventi solo attraverso il filtro delle inevitabili retoriche celebrative.
Io sono cresciuta in una famiglia molto numerosa: tutti e quattro i nonni, due zie nubili e noi quattro figli ci ritrovavamo, ogni giorno, intorno a una lunga tavola.
Il nonno materno aveva la sua ‘narrazione’, la più remota: raccontava di Caporetto, del Piave, della val Pusteria.
Il nonno paterno della sua prigionia nel caldo torrido dell’ in Africa; mio padre espulso dal liceo perché antifascista. Medico partigiano della Brigata Maiella ci incantava raccontando la sua fuga notturna da un casolare, dove era rinchiuso con altri compagni, per scampare alla fucilazione che li attendeva all’alba.
Mio nonno paterno, socialista, imprigionato a Regina Caeli sfuggito per un soffio alla strage delle Fosse Ardeatine, litigava spesso con i parenti materni, cattolici e democristiani. Queste divergenze ideologiche, però, non intaccavano mai l’unità familiare, che rimaneva solidale e aperta.
Aperta al dialogo sì, ma sul 25 aprile non si poteva discutere. Era il giorno della Liberazione. Si doveva festeggiare. Il 25 aprile del 1945 fu il giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia che aveva sede a Milano proclamò l’insurrezione generale anche negli altri territori ancora occupati dai nazifascisti, incitando i partigiani ad attaccarne i presidi prima dell’arrivo degli alleati. Intimando loro “Arrendersi o perire”.
E noi bambini imparavamo da quelle discussioni, da quelle emozioni. Ora il lavoro della memoria è tutto più difficile. E la nostra generazione ha una responsabilità in più.
Note per la Libertà (1./2)
Musicalbox 24.04.2025, 16:35
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