Pare che Compton, California, a cavallo tra anni Settanta e Ottanta non corrispondesse allo stereotipo cinematografico di “città dei gangster”. O almeno, così scrive Ben Westhoff nel suo “Original Gangstas”, meraviglioso, dettagliatissimo resoconto degli anni che avrebbero portato alla nascita e all’epoca d’oro del rap della west coast americana.
Situata una decina di chilometri a sud del centro di Los Angeles – a Los Angeles dieci chilometri sono una distanza piuttosto piccola – di giorno Compton sembrava un normale sobborgo residenziale, pronto per accogliere i rappresentanti di quella classe media che ancora non era stata distrutta dalla storia. C’erano villette a schiera e palazzi con grandi cortili. I bambini giravano tranquillamente per strada in bicicletta, la gente metteva i vestiti appena lavati a stendere in giardino, tutti pensavano ai fatti loro. Pare che invece di notte ci fosse qualche rissa, qualche gara automobilistica clandestina, roba del genere. Ma niente di così fuori dalla media.
Nel breve volgere di poche stagioni, però, prese forma una catastrofe sociale: l’occupazione calò drasticamente, mentre la presidenza Reagan cancellava il programma di lavoro pubblico che aiutava le persone in difficoltà a trovare un impiego. Aumentò la povertà e la mortalità infantile. La polizia entrò in una spirale di corruzione e violenza (nel 2000, il corpo di Compton fu sciolto e assorbito dalla polizia di Los Angeles). Il numero di omicidi si alzò velocemente, fino a raggiungere il triplo del tasso pro capite registrato a Los Angeles (che non è esattamente Locarno, come si può immaginare). Soprattutto, a controllare il territorio non era lo stato della California, ma le gang. I Crips, fondati a fine anni Sessanta nella south central Los Angeles da Raymond Washington e Stanley “Tookie” Williams, e i Bloods fondati proprio a Compton da Sylvester Scott e Benson Owens. Blu e rosso – i colori delle due gang – si dividevano Compton e la regione di Los Angeles intera: una città dove di lavoro ce n’era poco, di pistole tante, e per i ragazzi essere un Blood o un Crip era l’opportunità di carriera più immediata.
In questo contesto, all’inizio degli anni Ottanta, Andre Young era un ragazzo con 99 problemi: voti scarsi a scuola, genitori separati, madre lavoratrice a tempo pieno, e per di più aveva messo incinta una ragazza (il bambino nascerà nel 1981, primo dei suoi dieci figli). La salvezza poteva forse trovarsi in una carriera da piccolo criminale, ma per fortuna arrivò invece sotto forma di musica, di quell’hip-hop che da New York aveva cominciato a espandere la sua influenza verso ovest, e che avrebbe folgorato una generazione di ragazzini anche in California.
Ma questo non è un articolo sulla California delle gang – lontanissima culturalmente e musicalmente dal mito hippie di soli vent’anni prima – e non è un articolo sulla vita di Dr. Dre, che peraltro, quella servirebbe un romanzo per raccontarla, e Andre Young non ne verrebbe certo fuori come un eroe (al massimo il contrario). Ma, dicevo, questo articolo non parla dell’uomo Dre. Questo è un articolo su come Dre è arrivato a “2001”, l’album che ha eternato il suo mito e il suo personaggio pubblico nella storia dell’hip-hop.
Nel 1999, Dr. Dre era già sfuggito al futuro di piccola malavita che il destino aveva apparecchiato per lui. L’aveva fatto usando a suo vantaggio quella cultura di strada che aveva rischiato di fagocitarlo quando era solo un ragazzino, sfruttandola per costruire il suono bombastico del primo gangsta rap, poi evoluto in quello più ipnotico e melodico del cosiddetto G-funk. Gli anni Novanta erano stati la sua epoca d’oro artistica, grazie alle collaborazioni con il fratellastro Warren G e con Snoop Dogg, ma i Novanta stavano finendo, e non solo per lui: morti i condottieri Tupac Shakur e Notorious B.I.G., l’intero movimento dell’hip-hop stava cercando nuove strade.
Dre aveva già fiutato l’aria, e con l’Aftermath appena fondata con Jimmy Iovine aveva preso con sé il talento che avrebbe cambiato una volta di più la storia del genere: l’esplosione della popolarità di Eminem, per il quale aveva prodotto “The Slim Shady LP”, aveva preparato il terreno per un album che potesse riportare il nome di Dr. Dre ai fasti dell’acclamatissimo esordio “The Cronic”, uscito ormai sette anni prima. Un album a cui Dre stava lavorando da tre anni. Un album che sarebbe stato il suo ennesimo colpo d’ala personale e artistico, capace di farlo volare più in alto delle nuvole che si addensavano sulla sua testa, in ogni momento della sua carriera.
La prima nube nera era arrivata all’apice della popolarità degli N.W.A., quando Dre aveva deciso che non ne poteva più di litigare per i soldi con il manager Jerry Heller, e aveva lasciato il gruppo – rimanendo però legato al contratto con la Ruthless Records di Heller e del suo ex-compagno, ora rivale, Eazy E. Era riuscito a liberarsene grazie all’alleanza con Suge Knight, balordissimo, ex-guardia del corpo, non-troppo-ex-gangster, ora uomo d’affari, con cui aveva fondato la Death Row Records. Come ha fatto Knight a convincere Jerry Heller e Eazy E a liberare Dre dai suoi obblighi contrattuali? Secondo la biografia scritta qualche anno fa da Ronin Ro, pare che si sia presentato all’incontro con il management della Ruthless Records insieme a due uomini armati di mazze da baseball, e abbia detto a Eazy E che aveva preso in ostaggio Jerry Heller. E, beh, anche che sapeva dove viveva la sua famiglia, e molte altre cose anche peggiori…
Non abbiamo una versione ufficiale riguardo a come sia andata, ma alla fine le firme sono arrivate. Due anni dopo, la neonata Death Row di Dre e Suge Knight aveva pubblicato “The Cronic”, per poi lanciare le carriere dei già citati Snoop Dogg e 2Pac. Successi enormi, che però non avevano fermato i crescenti dissapori tra Dre e Knight, tra i principali artefici della sanguinosa faida tra East Coast Rap e West Coast Rap. E così, ecco arrivare la seconda nube: la separazione con un altro socio, all’epoca piuttosto pericoloso. Dre aveva ceduto la sua quota del 50% della Death Row, ma in questo modo era sfuggito al conflitto tra le due coste che avrebbe distrutto Knight, e ucciso Tupac.
La separazione aveva portato a dissapori anche con l’amico Snoop, e aveva diviso Dre dai suoi vecchi amici e collaboratori. La sua nuova avventura discografica – chiamata Aftermath Records – non era cominciata bene: due album, due flop. Il primo era a suo nome, “Dr. Dre Presents… The Aftermath”; il secondo, addirittura quello di un supergruppo composto per l’occasione, The Firm, con nomi all’epoca caldissimi come Nas e Foxy Brown. Entrambi erano stati presentati con proclami roboanti, per poi rivelarsi noiosi, banali e in generale poco amati dal pubblico. Altre nubi nere, insomma, per superare le quali serviva un terzo colpo d’ala. Che poi sarebbe quello di cui avrei dovuto parlare fin dall’inizio: “2001”.
“2001” voleva essere un seguito di “The Chronic”, e doveva intitolarsi “Chronic 2001”. Ma Suge Knight, venuto a conoscenza del progetto di Dre, aveva pubblicato “Chronic 2000”, una compilation di brani di artisti della Death Row (tra i quali un surrogato di Snoop, di nome Top Dogg, e un 2Pac postumo). Dre è così stato costretto a cambiare il titolo nel solo “2001”. Ma importava poco: dal punto di vista artistico, Dre sapeva di essere in forma. Durante la produzione di “The Slim Shady LP” aveva lavorato con Mel-Man, un giovane produttore della Virginia, insieme al quale aveva trovato una via minimale al suo G-Funk, condensando il suono fino all’essenziale: oggi, ascoltare “Role Model” di Eminem significa soprattutto ascoltare la prima scintilla che avrebbe portato a “2001”.
Ancora meglio, aveva sotterrato l’ascia di guerra con Snoop: il suo vecchio amico era ancora con lui, e in più erano arrivati diversi nuovi talenti. C’era il bassista Mike Elizondo, i tastieristi Scott Storch e Camara Kambon, il chitarrista Sean Cruse e il percussionista Taku Hirano. Dre li dirigeva come un regista sul set del suo film migliore, e la chimica funzionava così bene che anche i molti rapper ospiti dell’album offrivano performance memorabili. Non solo Snoop ed Eminem (le cui rime in “What’s the Difference” e “Forgot About Dre” sono quanto di più memorabile il rap di quel decennio abbia prodotto, e la concorrenza non è certo poca), non solo Kurupt, Xzibit e Nate Dogg, ma anche vere e proprie meteore: Six-Two e Ms. Roq offrono alcune delle strofe migliori dell’album. E poi c’è Hittman, poco più di un carneade prima di conoscere Dre, sparito dal giro pochi anni dopo: rappa su dieci canzoni dell’album più di ogni altro, sempre a un livello altissimo. Dicono che le grandi squadre di calcio siano quelle che riescono a far giocare i giocatori normali allo stesso livello dei campioni, e forse è stato proprio il caso di “2001”: un momento irripetibile che ancora oggi continua a fare proseliti.
“Still D.R.E.”, il singolo più universalmente noto, rappresenta la strumentale rap per eccellenza, tanto da far quasi sparire le rime che Dre ci appoggia sopra – peraltro scritte dal ghost writer Jay-Z. “Still D.R.E.” ripresa da musicisti di mezzo mondo, dall’India alla Giamaica, e capace perfino di diventare un classico intergenerazionale, fatto assai raro nella cultura contemporanea dell’eterno presente. Forse è successo perché Dre aveva pensato e mixato “2001” affinché suonasse nel modo migliore anche se ascoltato con le cuffie, un suo pallino che poi l’avrebbe portato a diventare miliardario.
Ma questa è un’altra storia: quando si parla di Dre, ce ne sono sempre altre, alcune splendide, altre che probabilmente lui vorrebbe dimenticare per sempre. Rimane la musica, e quella di “2001” probabilmente la ascolteremo ancora molto a lungo.