Musica rock’n’roll

Elvis, per chi l’ha visto e per chi non c’era

Novant’anni fa nasceva Elvis Presley. Leggende, contraddizioni, ossessioni: l’America non può fare a meno del Re, ieri come oggi 

  • Ieri, 11:24
  • Ieri, 15:42
Elvis Presley

The King of r'n'r

  • Ann Ronan Picture Library/Heritage-Images
Di: Michele Serra 

Perdonate la scarsa originalità, ma comincerei citando Lester Bangs. Che per carità, con Elvis c’entra poco: il genio anarchico della critica musicale americana ha compiuto la sua parabola negli anni Settanta, quando la rivoluzione di Elvis Presley era finita da un pezzo, e il mondo – non solo quello musicale – si stava muovendo verso tutt’altre direzioni. Eppure.
Riporto di seguito – traduzione di Anna Mioni contenuta nella raccolta “Guida ragionevole al frastuono più atroce” (Minimum Fax, 2005) – ciò che scriveva Bangs, sulle colonne del Village Voice, della prima volta che vide Elvis sul palco, a Detroit nel 1971. Un concerto a cui era arrivato senza aspettative di sorta. Eppure.

«Era l’unico artista di sesso maschile che in vita mia mi abbia causato una reazione di tipo sessuale: non si trattava di vera eccitazione, piuttosto di un’erezione del cuore, quando lo guardavo impazzivo di desiderio e invidia e venerazione e autoproiezione. Voglio dire, Mick Jagger, che avevo visto già nel 1964 e due volte nel ’65, non aveva niente a che spartire con lui.
Ecco là Elvis, vestito con quel ridicolo completo bianco che sembrava un castello di re Artù con le borchie, ed era troppo grasso, e la fibbia della cintura era grande come la mia testa, solo che la mia testa non è fatta d’oro zecchino, e qualsiasi uomo di minore importanza con una tenuta del genere addosso sarebbe sembrato il sosia di quell’idiota patentato di Neil Diamond, ma a Elvis stava bene. E, in fondo, cos’è che non gli stava bene?
Per quanto i suoi dischi toccassero il fondo, per quanto cercasse con tutte le sue forze di essere mediocre, restava sempre un barlume, un lampo dei tempi in cui... be’, io non c’ero, quindi non mi prendo la libertà di commentare. Ma dirò questo: Elvis Presley era l’uomo che in America ha introdotto la frenesia sessuale volgare, palese e sfacciata nelle arti popolari […] Quando Elvis ha cominciato a dimenare il bacino e Ed Sullivan si è rifiutato di trasmetterlo, tutto il Paese è entrato in un parossismo di frustrazione sessuale che ha portato a uno scontento duraturo sfociato poi nell’esplosione di folklore psichedelico e militante che sono stati gli anni Sessanta.
Siamo ancora tutti sconvolti per l’impatto. Oggi impera il caos sessuale, ma dal caos possono nascere la vera comprensione e l’armonia e, comunque vada a finire, è stato Elvis a far partire questa valanga, praticamente da solo. Quella sera a Detroit, una sera che non dimenticherò mai, gli bastava muovere di un pelo il muscolo di una spalla, senza nemmeno alzarla, e le ragazze del loggione che venivano colpite dal suo raggio gridavano, svenivano, urlavano, in calore. Davvero, ogni volta che quell’uomo muoveva qualsiasi parte del suo corpo anche solo di un centimetro, decine e decine di migliaia di persone andavano fuori di testa.
Nessuno è mai riuscito a suscitare un’isteria del genere a così tante persone, non Sinatra, non Jagger, nemmeno i Beatles. E questo dopo una quindicina d’anni di dischi mer*osi, e quasi vantandosi di non metterci il minimo impegno. […] Posso garantirvi una cosa: non saremo mai più concordi su una cosa tanto quanto lo siamo stati su Elvis.»

55:51

90 anni fa nasceva Elvis Presley

Millevoci, Rete Uno 08.01.2025, 10:05

Si sa che Bangs la sparava sempre grossissima, però il suo stile esagerato si adattava perfettamente al racconto di Elvis. Non si poteva esagerare, parlando di Elvis.
Forse ho esagerato anche io, con duemila battute di citazione. Ma è ovviamente meglio di qualsiasi cosa scritta da me – peraltro Elvis sul palco non l’avrei potuto vedere neanche volendo, e poi non sono americano, posso comprendere a malapena – e soprattutto rende conto del fatto che, a lui, bastava la presenza. La presenza del Re. Che ha continuato a ondeggiare sulle sue gambe di gomma, finché quelle non si sono schiantate sul pavimento del bagno di Graceland, sotto il peso di 115 chili e di un carico di psicofarmaci e sonniferi. Il Re che ha continuato a coprirsi con tute di lamé, e fino alla fine ha provocato reazioni isteriche in chi aveva la fortuna di vederlo. Come Lester Bangs, la prima volta che vedevi Elvis, non te la dimenticavi.

Tipo. Chissà cos’ha pensato chi l’ha visto nel giugno del 1956, alla sua seconda apparizione televisiva, sul palco del Milton Berle Show della NBC.
Quella sera Elvis Aaron Presley di Tupelo, Mississippi, ai tempi ventunenne, era già una piccola star, coltivata negli stati del Sud dal suo manager, il leggendario colonnello Tom Parker (che oggi ricordiamo come un villain senza appello a causa del film di Baz Luhrmann, ma era senza dubbio un personaggio ben più complesso). Di fronte al pubblico degli studi hollywoodiani da cui partiva la trasmissione, Elvis si presentò con la sua cover di “Hound Dog” di Big Mama Thornton, durante la quale ondeggiava i fianchi in modo per l’epoca scandaloso. Inconcepibile – per noi che siamo abituati a vedere sul palco cantanti che sembrano impegnati a pubblicizzare un loro immaginario profilo OnlyFans – pensare che ci possa essere qualcosa di scandaloso in un ragazzo che balla coperto da un completo larghissimo, ma tant’è. Le associazioni religiose e dei genitori erano insorte, il critico del New York Times Jack Gould aveva criticato («Non ha alcuna capacità di cantare […] per le orecchie è una noia inenarrabile»), e Elvis era diventato The Pelvis.

41:40

Mille sfumature di bianco

Millestorie 08.01.2025, 11:05

  • IMAGO

Chissà cos’ha pensato chi l’ha visto tre mesi più tardi all’Ed Sullivan Show (lo so, pare che gli americani non abbiano grande inventiva, quando si tratta di trovare titoli per programmi televisivi): lì – in una puntata dell’Ed Sullivan senza Ed Sullivan, assente causa incidente d’auto – era invece nata la storia citata da Lester Bangs della TV che vuole censurare Elvis, tanto da inquadrarlo sempre in faccia, in un primo piano utile non a mostrare le emozioni del performer, ma a evitare il resto del corpo. Era solo una mezza verità, visto che pare che in fondo Elvis non avesse tutta questa volontà di scandalizzare, ma importa poco rispetto alla realtà concreta del successo di quella serata: anche senza visibili ancheggiamenti, sessanta milioni di telespettatori e uno share sopra l’80% (il primo dato è ancora più incredibile se consideriamo che ai tempi la popolazione americana si fermava a circa centosessanta milioni di persone, la metà di quella attuale). Dopo quell’apparizione, anche il muro dei moralisti iniziò a franare: Elvis era ancora quello del sesso, certo, ma era anche romantico, cantava “Love Me Tender”, a fine anno pure al cinema (si può dire “musicarello”, negli Stati Uniti?). Il consenso – quello di cui scriveva, ancora, Bangs – era ormai formato, unanime e oceanico.

Chissà cos’ha pensato chi l’ha visto a Las Vegas nel 1969, all’apertura dell’International Hotel. La serata segnava il ritorno di Elvis ai concerti dal vivo, dopo un lungo periodo in cui la sua attività principale era stata quella cinematografica. L’International, appena costruito, era il più grande hotel del mondo occidentale, con 1’519 camere. Insieme a Elvis, a inaugurarlo c’era Barbra Streisand. Elvis era previsto per il secondo show e, secondo tutti i biografi dell’epoca, era nervoso. Disse al pubblico: «È la prima volta che mi esibisco davvero davanti a un pubblico in nove anni, e potrebbe essere l’ultima. Non lo so…». Dopo una scaletta di 15 canzoni, trionfalmente chiusa da sei minuti abbondanti di “Suspicious Minds”, era chiaro a tutti che non sarebbe stata l’ultima: il giorno dopo Tom Parker firmò il contratto che avrebbe portato Elvis a Las Vegas ogni anno, due volte all’anno, per due settimane ciascuna. La città del peccato avrebbe accompagnato l’ultimo decennio della vita di Elvis, dal ritorno trionfale sulle scene fino alla trasformazione in caricatura di sé stesso, uomo isolato dal mondo e devastato dalle sostanze. Ma almeno fino al 1973, la qualità delle sue performance rimase stellare. Quei concerti erano happening: erano – per noi che la guardiamo a distanza – l’America. E a Las Vegas, tempio eretto nel deserto per onorare l’assurdità americana, Elvis è ancora oggi una presenza fortissima: il suo volto è in tutti i negozi di souvenir, cloni cantano lungo la Strip, altri imitatori vengono paracadutati nei parcheggi dei casinò per intrattenere gli ospiti che vengono in città a bruciare i loro soldi. E naturalmente, beh, coppie di tutto il mondo possono farsi unire in matrimonio da un qualche malriuscito surrogato del Re.

Non è solo Vegas. L’ombra di Elvis si stende su tutta l’America del presente, ben oltre la commistione tra sesso e intrattenimento che Bangs sottolineava mezzo secolo fa. Elvis è ancora un simbolo delle contraddizioni e delle ossessioni degli Stati Uniti del ventunesimo secolo.
Elvis che detestava i drogati e combatteva contro la diffusione degli stupefacenti, pur essendo, nei fatti, un tossicodipendente, legato mani e piedi agli stessi farmaci di cui gli americani sono ancora oggi campioni di abuso. Elvis che amava le armi, e regalava pistole agli amici e alle donne – oltre a usarle spesso per divertimento, sfiorando incidenti mortali. Elvis che coltivava gli eccessi della ricchezza più tamarra, vero precursore del bling bling reso popolare dai rapper, ma anche di tutti gli esibizionisti di Instagram. Elvis la cui morte (presunta?) è al centro di una delle più complesse narrazioni complottiste tra le migliaia che vengono coltivate oltreoceano, seconda forse solo a quella che riguarda l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Tutta roba quintessenzialmente americana, decidete voi se in senso positivo o negativo: facile capire perché Donald Trump gli ha assegnato una postuma Medal of Freedom durante il suo primo mandato alla Casa Bianca.

Elvis, insomma, rimane uno dei pochi miti fondativi del passato e del presente americano, e della cultura occidentale tutta di conseguenza. Qualsiasi cosa ci riservi il futuro, qualsiasi strada prenda la musica pop nei prossimi anni, possiamo avere la stessa convinzione che aveva John Lennon: prima di Elvis, non c’era niente. Magari anche quella frase è solo una leggenda, ma non importa. È ancora impossibile esagerare, quando si parla di Elvis.


Ti potrebbe interessare