Musica agitata

Quando il rock’n’roll fa la mossa

Breve escursione nella parte cinetica del r’n’r, fra scuotimenti di anche, mulinamenti di gambe, sciamanismi e tribalismi vari

  • Ieri, 09:00
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Un emulo di Elvis in posa

  • Stephanie Gardiner
Di: Andrea Rigazzi 

Non sarà, il nostro, un viaggio troppo antropologico nella materia, ché antropologi non siamo. Perlomeno non lo è l’estensore di questo articolo. C’è però, nel corso della storia del rock’n’roll, tutta una dimensione legata al movimento che ben risalta. Espressione di una carica erotica e liberatrice, specie in tempi più castigati, o sublimazione del rapporto fra gli officianti (band e cantanti) e gli adepti (il pubblico), in una chiave non per forza religiosa, mosse e mossette hanno animato la storia del rock’n’roll e creato quei modelli ancora oggi riferimento per artisti anche al di fuori del contesto in cui ci muoveremo.

Pensando al rock’n’roll degli albori, quello degli anni Cinquanta dello scorso secolo, in molti avranno visualizzato nella loro mente le anche in perenne movimento di Elvis Presley. Quegli scuotimenti che faranno scrivere a un giornalista del “New York Daily” «La musica popolare ha raggiunto le sue profondità più basse nei “grugniti e inguini” di un certo Elvis Presley. Elvis che ruota il bacino ha dato un’esibizione che era suggestiva e volgare, sfumata con quel tipo di animalismo che dovrebbe essere confinato nei peggiori bar e nei bordelli”». Dicevamo, appunto, di epoche più castigate. Questa ipercinesi sul palco fruttò a Elvis il soprannome di “Elvis the Pelvis”, che visse con fastidio. Epperò sull’esuberanza sessuale esibita dal Re del rock’n’roll non tutti concordano. Il critico – molto critico in questo caso – Piero Scaruffi vede in lui un agente sbiancante di queste mosse, copiate, così come la musica, dagli artisti afroamericani. Per Scaruffi quello di Elvis non fu vero spirito animalesco ma misero scimmiottamento ad opera di un bel visino telegenico.

Facciamo un salto da qualche parte a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, quando la dimensione più sensuale si fonde con una sorta di mistica, legata alla diffusione di nuovi stili di vita come quelli degli hippie e della musica psichedelica. Jim Morrison dei Doors agita il suo talismano mojo richiamando su di sé gli sguardi e l’adorazione del pubblico, ripagato con tanto di oscenità che non passarono inosservate agli occhi della polizia. La mitologia morrisoniana ce lo ha consegnato come sciamano per cui ogni occasione per trasgredire era buona. Poi vabbè, se leggiamo cosa pensava Lou Reed del poeta maudit californiano, da lui considerato alla stregua di sempliciotto, un po’ la figura del Morrison ci si relativizza. Ma non vogliamo entrare a posteriori in questo confronto fra costa est e ovest USA.

Sempre in quel periodo, Jimi Hendrix compiva l’estremo sacrificio dando fuoco alla sua chitarra e sbattendola poi di qua e di là sul palco. Non fu l’unico a maltrattare il suo strumento. E soprattutto a mandarlo in fiamme. Jerry Lee Lewis lo fece con il suo pianoforte. L’uomo di “Great Balls of Fire” sul piano ci saltava, ne martellava i tasti come un ossesso, lo suonava perfino con i piedi. E forse, una volta, gli diede anche fuoco. Forse, sì, perché attorno a quell’episodio del 1958, del quale non è certo nemmeno il luogo in cui avvenne (forse al Paramount di Brooklyn, forse in Ohio) sono divampati molti dubbi. Non ci sono immagini né testimonianze, lo stesso Lewis ci giocherà alimentando sapientemente questa leggenda, ora negando, ora aggiungendole particolari.

A Jerry Lee Lewis, così come a Chuck Berry e James Brown, si ispirò Mick Jagger per le sue mosse sul palco, che diventeranno anche il titolo di una canzone da classifica (Maroon 5, “Moves Like Jagger”). Qualcosa che gli venne spontaneo, perché ascoltando la musica dei suoi Rolling Stones non poteva stare fermo. Un percorso di studio che non sarà indolore, visto che provando a far scendere e risalire l’asta del microfono come James Brown si colpì in piena faccia. Rispetto agli slanci giovanili, col tempo Jagger comprenderà anche l’importanza dello stare immobili sul palco per sottolineare alcuni momenti del concerto. Parliamo comunque di uno che qualunque cosa faccia il pubblico non lo perderà mai di vista.

Fra gli anni Settanta e Ottanta, le “mossette” si trasformano in ammiccamenti che richiamano il mondo della moda e delle riviste platinate. Il glamour entra in società con il rock’n’roll, dando vita al glam rock. È in particolare la scuola riconducibile a Marc Bolan e ai suoi T. Rex a giocare con l’ambiguità sessuale, ricorrendo a trucchi e rossetti per amplificare questa dimensione. Non per niente John Lennon definirà questo genere proprio “rock’n’roll col rossetto”.

Continuiamo a sfilare in passerella facendo un salto negli Ottanta del New Romantic. I suoi alfieri, su tutti i Duran Duran capitanati da Simon LeBon, esalteranno il lato “fashion” e la ballabilità della loro musica, e questo si rifletterà anche nella presenza scenica.

Il nostro viaggio fra le danze rituali del rock sta giungendo a destinazione, ma non possiamo non parlare dell’hard rock e del metal. Lì, la centralità se la prendono lo strumento simbolo del rock’n’roll e chi lo imbraccia. Parliamo ovviamente della chitarra e del chitarrista – o anche della chitarrista, se pensiamo a gruppi come le Girlschool. Senza nulla togliere al resto della band, voci in testa, sono i chitarristi a calamitare l’attenzione, perché è dai loro riff che sprigionano i pezzi, ed è sui loro assoli che gli stessi giungono al loro culmine. Se dobbiamo fare un nome, allora scegliamo Angus Young degli AC/DC e il suo “duck walk”, passetti ritmici da papera presi, tanto per cambiare, da Chuck Berry.
Non per niente proprio da queste icone è nata la moda dell’Air guitar, ossia quell’esibizione che consiste nel suonare una chitarra immaginaria mettendoci tutta la creatività possibile, mimando le gesta degli eroi della sei corde elettrificata. Lo abbiamo fatto in molti ascoltando dischi nel segreto delle nostre quattro mura, forse ignari del fatto che un giorno questo passatempo si sarebbe trasformato in disciplina con tanto di campionati mondiali.

L’ultima parte degli anni Settanta disvela al mondo la furia iconoclasta del punk, che con le sue canzoni manda al macero il rock pomposo che aveva dominato fin lì il decennio riportando in auge il rock’n’roll delle origini. Suonato in un modo, diciamo, più terra terra. Nelle movenze di Johnny Rotten dei Sex Pistols c’è un pizzico di sfacciata parodia e nessuna strizzata d’occhi al pubblico. Che dal canto suo si esibisce nella danza del pogo. Questo stile prende il nome dal salterello, e consiste nel saltare su e giù andandosi a mescolare, a colpi di spallate, con gli altri. Il pogo è tuttora il “ballo” più di moda tra i fan dei generi più duri, dal punk al metal. Se fatto nel fango di un openair è ancora più bello.

Chiudiamo con un episodio sul tema a cui ha assistito il sottoscritto. Fu qualche anno fa, al concerto di Elio e le Storie Tese qui, all’Auditorio Stelio Molo. A un certo punto, Elio si mise a cavalcare l’architetto Mangoni in proscenio frustandolo con un pollo di gomma. Momenti e movimenti che mi sono rimasti impressi e ai quali penso ancora divertito. Forse, come nessuno mai prima di allora, Elio era riuscito a domare la “bestia del rock’n’roll”.

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