Musica jazz

Arooj Aftab, a cavallo fra est e ovest

Intervista alla musicista pachistana, che da anni vive negli USA, prima artista del suo paese a vincere un Grammy

  • Oggi, 14:59
Arooj Aftab
  • Imago/Votos-Roland Owsnitzki
Di: Red. 

Su Rete Due, Montmartre ha ospitato Arooj Aftab. Artista pachistana, da vent’anni vive negli USA, dove ha ricevuto importanti riconoscimenti. Claudio Biazzetti l’ha incontrata per una chiacchierata in Triennale, a Milano, città dalla quale è passata durante la prima parte della sua tournée.

24:29

Intervista ad Arooj Aftab (Montmartre, Rete Due)

RSI Cultura 16.04.2025, 17:00

  • John Angelillo
  • Claudio Biazzetti

La tua musica - quella pachistana, in lingua urdu - è così profonda, poetica, molto carica di significato, romantica. Quali sono i criteri per scegliere una lingua della tua canzone?

«Ormai, a questo punto della mia vita, penso tutto in inglese. Ma amo il tipo di poetica che parla di amori incompleti e storie inconsuete: non le classiche cose mainstream sull’amore, ma cose che si discostano un po’ e variano tra di loro. Cerco sempre un po’ di humor, qualcosa che renda speciale un pezzo».

E se per esempio vuoi cantare di whisky, come nell’album del 2024, Night Reign, lo fai in inglese?

«Sì, a volte la canzone mi viene semplicemente in inglese perché sono molto bilingue, ormai».

Quali sono i pro e i contro dell’essere al contempo dell’est e dell’ovest?

«È bello perché l’aspetto improvvisativo e romantico possono sposarsi bene. Dalla parte “occidentale” ho fatto studi prevalentemente jazz, dove la parte di improvvisazione e collaborazione tra i vari strumenti è essenziale. Il risvolto della moneta è forse che la musica dell’est tende a essere lunga nella durata: puoi tranquillamente imbatterti in una canzone da otto minuti, mentre qui l’industria chiede di essere brevi, veloci, orecchiabili al primo ascolto. Non perdono troppo tempo a pensare, qui».

Tu però sei abbastanza libera e indipendente nelle tue scelte artistiche, no?

«Sì, non voglio scendere troppo a compromessi, e quando lo devo fare, faccio in modo che la musica stia almeno comunicando qualcosa».

30:23

"Vulture Prince" di Arooj Aftab, New Amsterdam

La Recensione 25.11.2021, 16:00

  • newamrecords.com

Ti hanno insignito del premio Pride of Performance, e sei anche l’unica persona pachistana ad aver mai ricevuto vinto un Grammy. Senti di avere una qualche responsabilità culturale verso il tuo paese d’origine?

«Sì, penso sia bello che ne abbiamo vinto uno. Questa cosa ha creato un sogno in molti musicisti del Pakistan, che non credevano possibile una cosa del genere. Ora molti staranno pensando “ah, allora ne voglio uno anche io”. Questo ha creato un nuovo desiderio, un fuoco nel sistema musicale pachistano che mi rende fiera. Ogni rappresentazione positiva di quel posto per me è fantastica. Perché siamo carini [ride]».

Che mi dici dei musicisti che suonano con te?

«Sono molto importanti per me, sono praticamente dei compagni di vita. Adoro conoscere persone che sono super speciali e che hanno una personalità forte e interessante. Che hanno una grande, profonda capacità emotiva».

E magari anche tanta pazienza, visto che bisogna andare in tour a lungo…

«Sì, ormai ci siamo abituati. È comunque importante che siano persone mature e che amino il loro strumento in una maniera quasi “inappropriata”, non so se mi spiego. La loro individualità e personalità deve notarsi nella performance. Per cui non è un bassista qualsiasi, è specificatamente Petros Klampanis, o alla chitarra Gyan Riley. Deve emergere la collaborazione». 

Quindi gente che non ha una passione, ma un’ossessione per lo strumento?

«Esattamente. Gente che riesce a elevare lo strumento e quindi anche sé stessa. Gente davvero devota al proprio strumento e che possa reggere il tutto con sicurezza e gentilezza. È importante riuscire a tollerarci tutti per un periodo lungo in tour».

Finita la prima parte del tour, si è chiusa in un ritiro creativo a Valencia, dove ha iniziato a scrivere nuovi pezzi.

Quanto tempo ci vuole per scrivere un intero album?

«Ci possono volere quattro o cinque anni, come uno soltanto. Ma diciamo che bisogna metterci almeno un anno. Quello è il minimo, e anche in quel caso è prestino».

Sei una perfezionista?

«No, diciamo che so quando smettere di ca**eggiare con la canzone. So precisamente quando è il momento di dire “ok, ci siamo”. Forse perché ho una mente un po’ da editrice, so fermarmi». 

È un pregio: molti artisti tendono a soffrire del “disturbo dell’eterno pezzo incompleto”, come se fosse sempre migliorabile…

«C’è sempre molta gioia, euforia e sollievo quando una traccia è completa. Mi piace molto che le mie canzoni abbiano una forma: un inizio, uno svolgimento, una fine. Dev’esserci un arco che finisce chiaramente. Le canzoni devono essere canzoni. È qualcosa che per me è fondamentale».

C’è qualche disco del passato di cui ti penti?

«Penso di no. Credo che ogni cosa sia successa nel modo in cui doveva. Forse avrei voluto che molte cose fossero successe prima, all’inizio dei miei vent’anni. Però tutte le mie uscite mi piacciono, ogni cosa ha avuto il suo senso».

Sei comunque soddisfatta?

«Sì, ma c’è ancora molto che verrà».

Correlati

Ti potrebbe interessare