Musica lirica

Francesco Filidei racconta il suo “Nome della rosa”

Basata sul libro di Umberto Eco, l’opera debutterà alla Scala di Milano il 27 aprile

  • 2 ore fa
27:09

Francesco Filidei

Musicalbox 15.04.2025, 16:35

  • Courtesy: Francesco Filidei
  • Claudio Ricordi
Di: Claudio Ricordi/Red. 

Dopo Giordano Bruno e L’inondation, Francesco Filidei è giunto alla sua terza opera, quasi un Grand Opéra questo Nome della Rosa dal ben noto romanzo di Umberto Eco, che sarà rappresentata alla Scala di Milano dal 27 aprile al 10 maggio.
È una coproduzione Teatro alla Scala, Opéra di Parigi e Carlo Felice di Genova, libretto dello stesso Filidei scritto assieme a Stefano Busellato, regia di Damiano Michieletto e sul podio Ingo Metzmacher.                          

Una creatura ben curata, racconta Filidei a Musicalbox, con un impianto musicale d’opera ben preciso, ma che ci può coinvolgere, a partire dai monaci che pregano, cantano e muoiono in mezzo alle voci di 100 coristi, 50 bambini e 21 solisti. E suoni concreti, oltre alla struttura sinfonica - quasi orecchiabile ma complessa - nonché citazioni e rimandi che vengono dalle passioni musicali di Filidei: Verdi, Puccini, Richard Strauss, Wagner, Stockhausen, Bussotti, Messiaen… Petali di note per un’opera in forma di rosa.

L’approccio alla classica “pagina bianca”, punto di partenza di una produzione creativa, ci porta subito tra le pagine avvelenate descritte nell’opera di Eco, che affascina il compositore per «la questione del libro come mondo, del libro come corpo, del corpo come mondo». Il libro come oggetto fisico ma anche, nel contesto in cui ci troviamo, strumento mortifero: «Eco non è che fosse un granché pro tablet. Lui diceva: la cosa bella di un libro è che tornando nel passato lo riprendi in biblioteca, e trovi magari la macchia di marmellata che ti ricorda di quel momento. Quindi, secondo me, la cosa che ha funzionato in quel libro, a livello di diffusione e leggibilità, è il fatto che uno si trovi l’oggetto che uccide fra le mani».

Dal libro al palco, il problema per Filidei è stato portare lo stesso tipo di sensazione del testo a teatro: «E allora mi sono detto: qual è lo strumento analogo nell’opera? La voce. Per quello ho deciso di far vedere anche i monaci che muoiono» e porta un esempio dalla quotidianità: «Perché ognuno può cantare sotto la doccia, eccetera; quando sente qualcuno che comincia a stonare, allora si sente portato a un tipo di situazione di disagio, che era quella che volevo provocare». Filidei ha iniziato a scrivere interrogandosi su come Eco avrebbe trattato il materiale raccolto se fosse stato un compositore, «ed effettivamente alla fine credo di aver fatto una trasposizione il più possibile consona a quel tipo di impostazione del pensiero: con l’ironia, con tutto quello che c’è e con la questione dell’identità. Quindi sì: sono partito dal foglio e ho chiuso con l’ultimo foglio, come nel libro».

Filidei ha composto molto con e per la voce: «Quando si scrive un’opera di questo genere, bisogna innanzitutto tenere in conto che questa voce non amplificata suona ai più, e all’ascolto, vecchia. Non c’è niente da fare. Dopo 100 anni di amplificazione, il primo impatto è con un qualcosa di altro, di passato, e secondo me questo deve essere il punto di partenza e la sua forza, cioè la forza pasoliniana del passato, e da quello bisogna costruire». Dice di scrivere opere che hanno la malinconia del tempo che fu, di quando il teatro era al centro della società. Ciò non significa rimanere ancorato nella nostalgia, perché ai suoi lavori conferisce attualità: così, Il nome della rosa apparirà al pubblico come «una installazione di arte contemporanea, in un museo, nel quale i materiali sono magari dei quadri dell’Ottocento, però hanno uno splash di colore diverso per ognuno di essi. Ogni scena è basata su una nota diversa e [le scene] hanno una struttura metallica, una cornice che gli dà un senso diverso, una impostazione diversa».

Correlati

Ti potrebbe interessare