Con il senno di poi, forse Andy Warhol, in maniera involontaria, fu preveggente quando, all’inizio degli anni Settanta, decise di realizzare un’opera intitolata “Martello e falce” (Hammer and Sickle, la titolò proprio così, anteponendo, anche nel dipinto, il martello alla falce), nella quale il simbolo per eccellenza dei movimenti socialisti e comunisti si slegava dall’abbraccio che, dal 1917 e per volere di Lenin, art director ante litteram, vedeva la falce e martello inscindibilmente sovrapposti a significare l’unità delle masse contadine e operaie nella lotta contro il sistema capitalista.
Andy Wahrol, Hammer and Sickle
Nell’opera del “padre” della Pop Art, infatti, i due strumenti non solo imitano molto liberamente il simbolo politico ma si congiungono o si disgiungono, come in un gioco di reciproca seduzione, senza mai però raggiungere un effetto iconografico risolutivo, quasi prevedendo il loro definitivo distacco, metaforico, che si sarebbe compiuto la notte del 25 dicembre 1991 quando a Mosca, sul pennone del Cremlino, avrebbe sventolato per l’ultima volta la bandiera rossa con la falce e martello decretando così, nel contempo, la fine dell’esperienza sovietica.
Parliamo di un evento accaduto oltre trent’anni fa, che i giovani di oggi possono tutt’al più aver conosciuto grazie a qualche libro di storia e, magari, i più curiosi tra loro, aver guardato su YouTube. È quindi difficile per la maggior parte dei ventenni o trentenni cogliere il reale significato di ciò che rappresentò nel mondo l’icona “falce e martello” per quei milioni di uomini e donne che in essa si riconobbero, che per essa lottarono e combatterono accettando anche di morire sulle barricate, nelle piazze, nei campi di concentramento, nelle carceri.
Storie dello scorso millennio, d’accordo, ma la potenza di quell’icona fu talmente enorme da dividere il mondo e le società in due parti distinte e contrapposte.
“Se non ci conoscete guardateci all'occhiello portiam falce e martello simboli del lavor viva la libertà”: sono sufficienti i semplici versi di questa canzone popolare dell’immediato secondo dopoguerra per comprendere il senso di appartenenza che quel simbolo aveva creato in chi amava riconoscersi nel “popolo socialista” o in quello “comunista”.
All’ombra di quel simbolo, questo popolo “con la falce e martello all’occhiello” ossia, nell’immaginario, i “proletari di tutto il mondo” di marxiana memoria, hanno inseguito l’idea di una rivoluzione intesa come un’emancipazione inarrestabile che, al termine di una lunga e dura marcia, la lotta di classe, avrebbe dovuto portare alle donne e agli uomini eguaglianza, solidarietà, giustizia, cultura, pace. Quella era la meta da raggiungere. Una meta lontana, faticosa da conquistare, al termine di una strada piena di insidie: la “plebe sempre all’opra china” cantata dall’Internazionale, lo sapeva, ma sapeva anche che, al proprio fianco, camminavano moltissimi intellettuali, artisti, poeti, letterati, musicisti di ogni nazionalità, tutti certi che il simbolo della falce e martello sarebbe stato l’ariete capace di sfondare i portoni del castello del privilegio, dello sfruttamento, dell’arroganza dei poteri, per fare entrare il vento della libertà e della concordia tra i popoli.
Ne erano convinti Breton, Garcia Lorca, Neruda, Pasolini, Picasso, Brecht, Saramago, Calvino, Modotti, Pavese, Sartre, Schostakovich, Nono, Guttuso, Moravia, Kahlo, Chaplin e con loro centinaia di intellettuali che hanno fatto propria l’indicazione di Majakovskij: L'arte non è uno specchio per riflettere il mondo, ma un martello per forgiarlo.
Un simbolo “diverso”
La “falce e martello”, però, non è un simbolo politico come gli altri. Se ne accorse il designer Enzo Mari quando, nella sua rielaborazione estetica, fece una ricerca per capire come quell’icona fosse stata rappresentata nel corso del tempo. Alla fine, cosa certamente non facile da ammettere per un designer, l’artista riconobbe che, nel caso della falce e martello, il valore formale non aveva nessuna ripercussione sul significato che veniva veicolato dal simbolo: “La falce e martello – scrisse in quell’occasione Mari - appartiene ai proletari, non tanto nel senso che essi vi si riconoscono genericamente ma nel senso che essi la sentono propria al punto di utilizzarla direttamente e liberamente, senza costrizioni di tipo linguistico”.
Sarà forse anche per questo motivo che molti artisti hanno potuto interpretare liberamente, ossia lontano da ogni ortodossia iconografica, il simbolo socialcomunista. Per farsene un’idea, in Rete sono visibili venticinque opere – di Jean Michel Basquiat, Mario Schifano, Mimmo Paladino solo per citare alcuni artisti presenti – che, scelte tra oltre centotrenta, vennero pubblicate dal settimanale l’Espresso nello speciale dedicato a una mostra dal titolo “La falce e il martello, simboli di ferro” allestita nel 2008 dal Museo sperimentale d’Arte contemporanea a L’Aquila.
Mimmo Paladino, Falce e martello
Sappiamo come è andata a finire: è storia di ieri che in questa sede non ci interessa analizzare. Ci basti sapere che oggi le falci e martello sono merce obsoleta anche tra le chincaglierie dei mercatini delle pulci.
Sic transeat gloria mundi…