Società

Il femminismo

I segni del Novecento: tappe di una rivoluzione inarrestabile

  • 30 novembre 2023, 14:22
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Di: Romano Giuffrida 

«Tremate, tremate…le streghe sono tornate!». Sono trascorsi cinquant’anni, anno più anno meno, da quando le strade e le piazze rimbombavano della voce di migliaia di donne che rivendicavano la propria identità di genere. Chi doveva tremare? I maschi e la cultura patriarcale che li sosteneva imponendo, a scapito delle donne, differenze di genere negli ambiti sociale, culturale, politico e economico. All’epoca, tra sfottò e alzate di spalle, il mondo maschile credette di poter rimuovere la questione in breve tempo. «E’ una moda passeggera», si diceva.

Non lo era e quella parte di maschi che non volevano rinunciare ai modelli che davano loro identità e privilegi, cominciò a sentire fragile il terreno sotto i piedi. Iniziarono ad aver paura.

Cinquant’anni dopo, per molti maschi (anche delle ultime generazioni), quella paura si è trasformata in terrore che, nelle situazioni più estreme, si esprime attraverso violenze, stupri e assassinii. Un dato: quarantacinquemila donne vittime di femminicidio nel 2021 secondo un rapporto dell’Onu, più della metà avvenuti nella sfera relazionale più intima.

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«No, non tutti gli uomini sono potenziali assassini e no, certi omicidi non sono figli, come stiamo leggendo in questi giorni, del “patriarcato” o della “mascolinità tossica, ma della cultura (di matrice progressista) della “emancipazione” dai “valori arcaici” e, forse, dai valori tout court».

Non citiamo l’autore né la fonte di questo attacco alla «retorica del femminismo radicale» (sic), pubblicata sul web nel ventitreesimo anno del terzo millennio, in occasione dell’ennesimo femminicidio. Non lo facciamo perché il farlo rischierebbe di circoscrivere quelle parole al “caso isolato”. Questi concetti sono invece proprio alla base di un’idea velenosa di mascolinità che affonda le proprie radici nella cultura che da tempo immemorabile ha definito e definisce la femmina inferiore al maschio. Una concezione che le donne e il movimento femminista durante tutto il Ventesimo secolo e soprattutto nella sua seconda metà, hanno giustamente rifiutato e combattuto.

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Molto, se non tutto, era iniziato in realtà con la Dichiarazione dei diritti della donne e della cittadina che nel 1791, nella Francia rivoluzionaria, la drammaturga Olympe de Gouges, redasse con l’obiettivo di affiancarla alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, uno dei documenti programmatici della Rivoluzione francese. Due anni dopo, con l’accusa di essere controrivoluzionaria, de Gouges venne ghigliottinata. Chi la condannò, nel citare i capi di imputazione, affermò pure che Olympe aveva «dimenticato le virtù che convenivano al suo sesso».

La prosa è settecentesca, il significato però è rimasto attuale e ribadito ancora oggi da una parte della società maschile.

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Com’è risaputo, di femminismo si cominciò a parlare già nella seconda metà dell’Ottocento in concomitanza con lotte delle donne per il diritto al voto e alla loro emancipazione sul lavoro e nella società. Le battaglie di questa prima “onda” emancipazionista ebbero un grande peso e si svilupparono nei decenni successivi con risultati più che significativi. Senza quelle battaglie oggi le donne non potrebbero votare, laurearsi, lavorare potendo aspirare anche a cariche dirigenziali (anche se, come è noto, tutt’ora il gender gap è ancora elevatissimo: una cartina di tornasole dei rapporti di forza maschi-femmine difficilmente contestabile). Rispetto a quelle rivendicazioni, il mondo maschile, ob torto collo dovette comunque cedere, anche perché era una precisa esigenza del sistema capitalistico aumentare le donne nel sistema produttivo e, conseguentemente, poter fare riferimento a una società più “elastica” nelle quali le donne stesse potessero muoversi (e lavorare) senza molti dei vincoli che la cultura patriarcale imponeva loro.

Sulla scia di questa linea emancipazionista negli anni Sessanta-Settanta avvenne la svolta che portò a quella che viene ricordata come la “seconda onda” del femminismo, quella dell’autocoscienza, degli studi di genere, delle riviste femministe che in ogni parte del mondo misero in discussione l’intero apparato concettuale del patriarcato.

Nel nuovo femminismo, non c’è più la semplice rivendicazione dell’egualitarismo dei diritti sociali tra maschi e femmine («L’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti» scrisse Carla Lonzi, fondatrice nel 1970 del gruppo Rivolta femminista), ma il desiderio di una rivoluzione che ribaltasse le fondamenta stesse della società maschile.

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Tra gli anni ’80 e ’90 si sviluppò la “terza ondata”. Questa, grazie alle elaborazioni di numerosi studi di genere e alle lotte delle comunità omosessuali e transessuali che si erano affermate parallelamente a quelle delle donne, allarga la propria battaglia anche al piano dei diritti della comunità LGBT+.

Come è facile capire, quelli che abbiamo evidenziato sono solo alcuni momenti dell’evoluzione del movimento femminista negli ultimi decenni del secolo scorso, sufficienti però a comprendere quanto il “darsi voce” delle donne sia stato e sia un’inarrestabile marea che ha investito e continua a investire il mondo maschile di qua e di là dell’Oceano.

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Un nuovo femminismo

Attualità culturale 24.11.2017, 17:05

  • Keystone

Di fronte al grido «il corpo è mio e lo gestisco io», slogan valido indifferentemente per donne, gay e transgender, ai molti uomini che, pur se con molta fatica, si sono messi in discussione ridiscutendo le fondamenta dei propri riferimenti culturali, fece e fa da controparte ormai un “esercito in rotta” (purtroppo molto numeroso) di maschi che sentendo ormai insostenibili i capisaldi del loro potere, nella logica dell’après moi le déluge, agiscono nefandezze di ogni tipo, di cui il femminicidio è solo la punta visibile di un iceberg molto profondo fatto di ricatti, violenze, prevaricazioni, linguaggi sessisti. Tutte le donne lo sanno, come altrettanto sanno che la loro lotta sarà ancora molto lunga.

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