Immagine numero uno: giubbotto di pelle nera indossato su una t-shirt bianca; jeans; stivaletti neri.
Immagine numero due: felpa “college USA” con ricamo della lettera iniziale del nome dell’istituto, accompagnata da camicie a scacchi colorate, jeans e scarpe di tela.
Immagine numero tre: gonna ampia a pois, indossata con camicetta, cardigan, foulard al collo, calzini bianchi in cotone alla caviglia, scarpe “ballerine” in vernice.
No, non abbiamo voluto scrivere le didascalie di un catalogo dedicato alla moda più diffusa tra gli adolescenti statunitensi negli anni Cinquanta, bensì fare degli esempi per dimostrare come i media a partire dal secolo scorso abbiano avuto la straordinaria capacità di creare icone che venivano immediatamente introiettate dall’immaginario comune. Un esempio? Provate a rivedere mentalmente le immagini di Marlon Brando in “Il selvaggio” del 1953 o una qualsiasi fotografia, dello stesso periodo, di James Dean o di Audrey Hepburn e vi accorgerete che i tre look si adattano perfettamente a loro, anzi: erano i loro look di scena.
È cosa nota che l’industria del consumo di massa, nei decenni, ha formato gran parte dei segni entrati a far parte dell’immaginario comune, nel quale, di conseguenza, ha trovato posto ciò che i sistemi di produzione volevano e i media imponevano: i teenager furono un validissimo banco di prova per questa strategia.
Non ci siamo riferiti a caso agli anni del Secondo dopoguerra, perché alla fine della guerra (e grazie alla guerra stessa), gli States vissero una sorta di età dell’oro che, tra l’altro, significò molti più dollari a disposizione per tutti. Nell’euforia generale, crebbero anche le “paghette” settimanali dei più o meno quindici milioni di adolescenti dell’epoca che si trovavano a crescere in quello che veniva presentato come il “sogno” dell’America (l’American dream dei primi coloni), che si stava realizzando.
Improvvisamente, quei ragazzi che sino a prima della guerra erano stati considerati “bamboccioni” in attesa di diventare adulti, grazie ai circa 2 miliardi di dollari del loro potere d’acquisto tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio del decennio successivo (miliardi che, sia detto per inciso, diventeranno 9 nel 1958 e 14 nel 1964) si trasformano in target, ossia in un gruppo sociale e di mercato a sé stante, con propri modelli di riferimento e di consumo.
“I teen-ager sono un’invenzione americana”.
Non era una boutade giornalistica il titolo apparso nel 1945 sul New York Times. I teen-ager, al di là del dato anagrafico che li definiva ragazzo o ragazza dai tredici ai diciannove anni, come target, furono un’invenzione del marketing e della pubblicità. Di fronte alla montagna di dollari che intravidero all’orizzonte, le advertising and marketing agency, proprio come fecero il Gatto e la Volpe con Pinocchio, cominciarono infatti a tessere una solida rete di blandizie e ammiccamenti che, da un lato, gli riconosceva uno status di gruppo sociale (teenager appunto) e dall’altro, giocando sulle emozioni adolescenziali, li seduceva facendo sì che i loro acquisti sembrassero espressione di un loro desiderio e non l’esito di una precisa strategia di mercato elaborata su di loro.
Oltretutto, i ragazzi del dopoguerra avevano maturato, anche se in forma ancora embrionale, una volontà di differenziazione dai modelli dei propri genitori, il che li spingeva a rifiutare tutto ciò che non fosse frutto di una loro decisione. Come imporre allora modelli di consumo a un target così recalcitrante? Ad esempio, per rimanere nell’ambito dell’abbigliamento (che fu uno dei primi banchi di prova del marketing “mirato” alla Younger Generation), come proporre capi disegnati ad hoc per teenager? Non certo inventando ex novo una moda: non sarebbe stata accettata. Che fare allora? Semplice: ispirarsi direttamente all’abbigliamento “casuale” che i ragazzi e le ragazze già indossavano e riproporlo caricandolo di simboli e nuovi significati, in poche parole trasformandolo in icona attraverso l’uso sapiente dei media. Si sa, l’abilità del prestigiatore sta essenzialmente nel far ritenere verosimile una realtà immaginaria in luogo di quella vera: è a questa arte che si sono ispirati i Maghi Merlino di Madison Avenue quando, con un colpo di bacchetta magica, hanno trasformato il consueto in eccezionale. Per esempio, grazie ai media, una semplice camicia (il consueto) indossata da una star dello spettacolo diventa una forma della finzione (l’eccezionale) e entra a far parte dell’immaginario comune. Se poi la star prescelta come testimonial è già un punto di riferimento per gli adolescenti è gioco-forza che, conseguentemente, il desiderio di emulazione e di possesso arrivi immediatamente dopo. Infatti, così è stato. Una volta “agganciati” i teenager, alle aziende non è rimasto altro impegno che inventare e vendere prodotti pensati appositamente per il nuovo target (a volte non fu nemmeno necessario inventare ma semplicemente ristilizzare in chiave giovanile prodotti già esistenti, come la brillantina sul mercato già dagli anni Venti, che nacque “a nuova vita” nella seconda metà degli anni Cinquanta grazie soprattutto a Elvis Presley, “idolo” indiscusso per i giovani di quel decennio). E’ pensando soprattutto al nuovo mercato che poi, ad esempio, nascono i dischi a 45 giri: costano poco ma vendono moltissimo, Rock Around the Clock, la hit di Bill Haley che “battezza” la nascita del rock&roll, vendette 3 milioni di copie solo nel 1955.
Da quel momento in poi i teenager tutti li vogliono e tutti li cercano, negli Usa come in Europa, e grazie ai testimonial e influencer che si affermano generazione dopo generazione, sono molti i neo Paperon de Paperoni che hanno riempito i loro forzieri grazie ai teenager, un mercato che da quel “One, two, three o'clock, four o'clock, rock…” non si è mai più interrotto perché, come si sa, la “fabbrica” dei teenager non si ferma mai… e nemmeno quella dei Maghi Merlino.