Storia

Decolonizzare la mappa. L’Africa globale di Mansa Musa

Dalla leggenda dorata alla riscoperta storica: riletta la figura del sovrano del Mali per restituire dignità e centralità all’Africa medievale, tra pellegrinaggi epici, mappe dimenticate e reti globali di scambio, cultura e potere

  • Ieri, 17:00
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Il re Mansa Musa che tiene in mano una pepita d’oro, dettaglio. Atlante Catalano (1375), Biblioteca nazionale di Francia

Di: Leonardo Marchetti  

Nell’ambito del Festival Echi di Storia 2025, lo storico e archeologo francese specializzato nella storia dell’Africa antica François-Xavier Fauvelle e Marco Aime, professore di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, hanno raccontato al pubblico un’Africa senza margini: un continente connesso, mobile, pensante. Lo hanno fatto ripercorrendo il pellegrinaggio di Mansa Musa, sovrano del Mali, che nel XIV secolo raggiunse la Mecca in un viaggio divenuto leggenda. Da lì, da quella carovana, inizia anche questa storia.

C’erano una volta, in un regno d’oro e di sabbia, ottanta cammelli carichi di ricchezze, sessantamila uomini, una regina seguita da cinquecento ancelle, e un sovrano che viaggiava con il sole. Tutti diversi e tutti ugualmente in cammino. Di lui, del re, si diceva che tutto ciò che toccava diventasse luce: l’oro scorreva dalle sue mani come acqua, e i racconti del suo passaggio si propagavano come profumo d’incenso.

Quel re si chiamava Mansa Musa (ca. 1280–1337), imperatore del Mali, signore di un regno di religione islamica che si estendeva dal golfo di Guinea al deserto. Nel 1324, durante il suo pellegrinaggio alla Mecca, giunse al Cairo con una carovana mai vista. Le strade della città si riempirono di stupore, mentre il valore dell’oro, si dice, precipitò in pochi giorni.

Non era una fiaba e non era un sogno: era l’Africa che guardava al mondo e di quella visione restarono tracce a lungo nelle cronache, nei racconti, ma soprattutto nelle mappe. Gli atlanti europei, come il celebre “Atles Català”, l’“Atlante catalano”, 1375, trasformarono velocemente Musa in leggenda, fissandone l’immagine su troni dorati, con pepite e scettri in mano. Ma dietro quella figurina esotica c’era un mondo reale, fatto di potere, cultura e relazioni.

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Atlante del XIV secolo attribuito ad Abraham Cresques. Questo atlante di carte marine in lingua catalana è stato realizzato intorno al 1375. Biblioteca nazionale di Francia.

Lungi dall’essere una eccezione, l’apparizione abbagliante di Mansa Musa sul palcoscenico globale è in effetti il segno di una civiltà mobile, ricca, sapiente, connessa. Rileggere quell’episodio oggi, come fanno François-Xavier Fauvelle nel Rinoceronte d’oro(Torino 2017) e Marco Aime nel recente La carovana del sultano (Torino 2023), significa mettere in discussione l’idea stessa di ‘centro’ e ‘periferia’ nella storia. Significa riconoscere che l’Africa non era una terra marginale, fuori dal tempo, bensì una protagonista delle dinamiche globali del cosiddetto Medioevo, la sede di una civiltà in piena espansione, capace di collegare il Sahel al Mediterraneo, ed entrambi a sua volta all’Asia islamica: «L’Africa non è mai stata isolata», scrive Fauvelle, è stata invisibile solo per chi guardava da un’altra parte.

La storia del suo pellegrinaggio è nota da secoli, ma il modo in cui è stata raccontata rivela molto di più i silenzi che le parole. Come ha mostrato lo storico Warren Schultz nel suo “Mansa Musa’s Gold in Mamluk Cairo: A Reappraisal”, analizzando le cronache arabe e la loro ricezione in Occidente, l’episodio è stato a lungo ridotto a un’aneddotica esotica: un sovrano africano che, per troppa generosità, avrebbe rovinato l’economia egiziana.

Un’immagine efficace quanto fuorviante giacché il racconto di Musa che ‘destabilizza” l’economia egiziana si basa su una fonte unica, il “Masālik al-abṣār fī mamālik al-amṣār” (“I sentieri degli sguardi nei regni delle città”) del cronista mamelucco Ibn Faḍl Allāh al-ʿUmarī (1301–1349), autore di un’opera enciclopedica che raccoglieva notizie da viaggiatori e funzionari di corte.  La sua narrazione, filtrata dall’ammirazione e dal gusto per il fantastico, ha alimentato un’immagine tanto duratura quanto parziale ed è smentita dall’analisi più ampia degli scambi aureo-argentei dell’epoca. Eppure, l’effetto più rilevante di quell’aneddoto non fu economico, ma immaginativo: ha finito per oscurare ciò che Musa realmente rappresentava — una potenza africana inserita a pieno titolo nei circuiti del potere, dell’economia, della fede e del sapere del tempo.

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L'impero medievale del Mali alla fine del regno di Mansa Musa (1337 d.C.), Gabriel Moss, CC BY-SA 4.0.

Nel XIV secolo, l’impero del Mali era uno degli Stati più estesi e influenti del mondo. Si estendeva dal golfo di Guinea al deserto e abbracciava territori ricchi di oro, sale, avorio, schiavi e colture, con una rete fluviale che faceva del Niger un’arteria vitale. Il commercio era il suo respiro: profondo, regolare, antico. Attraverso carovane e mercati, l’Africa occidentale si innestava in una trama di scambi che attraversava l’Africa sahariana, il Maghreb e il mondo islamico orientale, unendo deserti e porti, moschee e biblioteche, fino a connettersi con il Mediterraneo, il Vicino Oriente e, più lontano, con l’Asia.

Retto dalla dinastia Keita, aveva raggiunto il suo apogeo proprio con Mansa Musa. Timbuctù, Gao e Djenné erano non solo centri di scambio, ma anche di cultura e spiritualità. L’Islam, introdotto secoli prima, veniva ora sostenuto dal potere centrale come religione di Stato, ma conviveva con le tradizioni locali. Musa promosse l’edilizia religiosa, inviò studenti a Fez, attrasse architetti e sapienti andalusi: fece della cultura islamica un ponte tra l’Africa nera e il Mediterraneo.

Il pellegrinaggio alla Mecca – l’ḥajj – fu il coronamento simbolico di questa politica. Non solo un gesto devoto; nella fede islamica, l’ḥajj è uno dei cinque pilastri dell’Islām, un dovere per ogni credente che ne abbia i mezzi. Per un sovrano, poi, era anche un atto pubblico, capace di rafforzare la legittimità politica e la centralità spirituale. Il suo viaggio lungo le rotte trans-sahariane, attraverso le oasi di Walata, Tuat e l’Egitto mamelucco, rese visibile la profondità di quelle connessioni. Quando Musa giunse a Il Cairo nel luglio del 1324, l’incontro con il sultano al-Nāṣir Muḥammad fu un momento di diplomazia imperiale.

I cronisti arabi rimasero colpiti dalla ricchezza, dalla compostezza, dalla regalità africana. «Questo uomo inondò Il Cairo con la sua generosità», scrisse al-ʿUmarī. E mentre l’aneddotica trasformava la figura dell’imperatore in simbolo e incarnazione dell’Africa ricca, favolosa, sconosciuta, il suo oro veniva scambiato nella capitale mammelucca, non semplicemente gettato via: manoscritti, stoffe rare, strumenti per la scrittura e l’insegnamento. Musa commissionò edifici, sostenne artigiani, ricompensò i sapienti.

Ma soprattutto, investì in relazioni: strinse legami con giuristi e dotti dell’Islam orientale, invitò con sé anche il poeta andaluso al-Sāḥilī, intellettuale raffinato e architetto di corte, che contribuì a introdurre nel Mali nuove forme costruttive; parimenti stabilì contatti diplomatici con l’Egitto, l’Arabia, il Maghreb. Quando Mansa Musa rientrò nel Mali, insieme a lui e al suo variopinto corteggio, giunsero progetti, idee e alleanze. Così nacquero le moschee di Timbuctù, l’università di Sankoré, l’urbanistica islamica a Gao e a Djenné.

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La Grande Moschea, Djenné, Mali, al mattino, di Gilles Mairet, CC BY-SA 3.0.

È in questo quadro che i lavori di Fauvelle e di Sime si fanno essenziale perché non si limitano a raccontare le immagini sedimentate ma le decostruiscono e ci invitano a pensare il cosiddetto Medioevo da sud. Si prenda per l’appunto il già citato “Atlante catalano” del 1375, vi si vede raffigurato Mansa Musa seduto su un trono nell’Africa occidentale, incoronato, con uno scettro nella sinistra e una pepita d’oro nella destra. L’immagine è potente, ma ambigua. Esalta la ricchezza del sovrano e allo stesso tempo lo isola: lo fissa in una posa immobile, lo trasforma in un’icona muta, circondata dal silenzio. Come se la sua storia finisse lì, nella staticità dorata di una figura da contemplare, non da comprendere. Il breve testo che la accompagna rafforza questa visione. Tradotto in italiano dal catalano si legge: «Questo signore nero si chiama Musse Melly ed è il sovrano della terra dei neri [...]. Questo re è il più ricco e nobile di tutte queste terre a causa dell’abbondanza dell’oro estratto dalle sue terre». Nessun accenno alla cultura, alle relazioni, al mondo di Mansa Musa. Solo oro.

Eppure, nello stesso secolo, i geografi del mondo islamico costruivano mappe molto diverse: più mobili, più dettagliate, più profonde. Al-ʿUmarī e Ibn Saʿīd, per esempio, consultavano vere e proprie rappresentazioni geografiche — le Ǧuġrāfiyā — in cui l’Africa appariva attraversata da fiumi, popolata di città, definita da coordinate. Un continente in relazione, non un vuoto da riempire.

L’Africa che parlava – che scriveva, commerciava, viaggiava – restava ancora fuori dal campo visivo europeo. Decolonizzare la mappa significa anche questo: riscoprire le visioni del mondo che l’Europa ha oscurato, e restituire all’Africa il diritto di essere disegnata con i propri tratti.

Ad ogni modo, il pellegrinaggio di Mansa Musa fu un evento in grado di lasciare tracce nella cartografia, nella diplomazia, nei mercati. Fece conoscere al mondo islamico la forza del Mali e, viceversa, portò in Africa architetture e modelli culturali nuovi. Ma non solo. Un secolo dopo, quando i portoghesi iniziarono ad esplorare la costa atlantica africana, cercavano ancora le mitiche miniere del re nero. La leggenda di Mansa Musa sopravviveva nelle mappe e nei racconti dei mercanti: un re d’oro seduto al cuore dell’Africa, segno di un mondo da raggiungere, replicare. Un mondo da cercare, prima di tutto.

Scena di corte mamelucca al tempo di Al-Nasir Muhammad. Maqamat di al-Hariri, 1334, probabilmente Egitto. Probabile raffigurazione del sultano An-Nasir Muhammad.png

Scena di corte mamelucca al tempo di Al-Nasir Muhammad. Maqamat di al-Hariri, 1334, probabilmente Egitto. Probabile raffigurazione del sultano An-Nasir Muhammad.

Un desiderio di scoperta che si trasformò presto in strategia di conquista. Alla meraviglia per l’opulenza seguirono la volontà di controllo, il calcolo delle rotte, delle risorse, dei profitti. La spedizione infruttuosa di Jaume Ferrer nel 1346 e la conquista portoghese di Ceuta nel 1415 inaugurarono una nuova stagione: quella dell’accesso diretto degli europei alle rotte dell’oro, dell’avorio, ma soprattutto della schiavitù. Lungo quelle stesse coste che Musa aveva percorso in carovana, si addensarono in pochi decenni galeoni e caravelle, porti fortificati e piantagioni. Il cammino di Mansa Musa lasciò un orizzonte aperto, un orizzonte che in mano europea, invece di espandere la conoscenza reciproca, venne piegato all’espansione coloniale. Alla carovana del re subentrarono allora le catene. Ciononostante, la sua è una storia che non si spense. Nelle pieghe della memoria restò la scia di una carovana che sapeva d’incenso e di sabbia. Un uomo vestito d’oro che attraversava il deserto sotto la luna scrivendo una storia un passo dopo l’altro. Non un miraggio, ma un re africano in pellegrinaggio, che mostrava agli altri continenti cosa voleva dire camminare nel mondo con dignità.

Dietro di lui, già soffiava il vento della storia — un vento che macina i secoli, esalta gli uomini, travolge gli orizzonti. Ma per un istante, quel passo nel deserto fu più forte della tempesta.

E chi racconta queste storie, ancora oggi, tiene accesa la lampada che illumina i margini, laddove, forse, il cuore dell’umanità batte più forte.

26:12

I secoli d’oro dell’Africa

Laser 10.04.2025, 09:00

  • Imago Images
  • Alessandro Bertellotti

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