Storia

I margini della democrazia americana

Una storia di promesse, esclusioni e fantasmi. Ieri come oggi

  • 12 aprile, 08:00
  • 14 aprile, 08:58
Assalto a Capitol Hill

Assalto a Capitol Hill, 6 gennaio 2021, foto di Tyler Merbler, CC BY 2.0

Di: Leonardo Marchetti 

«We the People» – noi, il popolo. È con queste parole che si apre la Costituzione degli Stati Uniti, evocando un’idea di coesione nazionale e appartenenza condivisa. Eppure, sin dalle origini, quella formula solenne ha convissuto con esclusioni sistemiche, fratture razziali, diseguaglianze di genere, conflitti religiosi e discriminazioni culturali. La democrazia americana, come afferma la storica Raffaella Baritono, non è mai stata un blocco compatto e armonioso, ma un campo di tensioni, un’arena in cui si è giocata – e si gioca tuttora – la definizione stessa dell’identità nazionale.

Il titolo dell’intervento, I ‘margini’ della democrazia americana tra eredità storica e sfide del presente, rinvia a un doppio movimento: da un lato, le promesse emancipatorie inscritte nel discorso democratico; dall’altro, le fratture che lo attraversano e lo limitano. Una dialettica che accompagna la storia degli Stati Uniti almeno dalla prima inaugurazione di Thomas Jefferson nel 1801, fino ai giorni nostri.

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Thomas Jefferson

Blu come un'arancia 25.10.2016, 09:15

L’espansione democratica negli Stati Uniti si è costruita su una contraddizione strutturale: ogni passo avanti verso l’inclusione è stato accompagnato da nuove linee di esclusione. La cittadinanza, mai davvero universale, si è definita attraverso soglie mobili fondate su etnia, razza, genere, religione. La democrazia americana non è mai stata una linea ascendente, ma un campo di forze in tensione. Istituzionalmente solida, ha vissuto fratture profonde sul piano della rappresentanza e della partecipazione. Si è trattato di un processo conflittuale, capace di espandersi e di ritrarsi, di includere e respingere, spesso nello stesso tempo. Dal suffragio negato alle donne e alle minoranze, alla segregazione imposta dopo l’abolizione della schiavitù; dalla stagione delle Jim Crow Laws alla criminalizzazione del dissenso durante la guerra fredda, ogni apertura ha prodotto reazioni. Oggi, quelle fratture sembrano più vive che mai.

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La voce degli schiavi (2./5)

Alphaville 08.04.2025, 12:05

  • iStock
  • Mattia Pelli e Cristina Artoni

Nel mirino delle contestazioni più accese ci sono proprio quei programmi – DEI: Diversity, Equity, Inclusion – che mirano a garantire rappresentanza alle minoranze. In molti Stati, soprattutto del Sud, si assiste a un’offensiva politica e legislativa che mira a smantellare queste politiche, dipinte come ideologia divisiva o “discriminazione al contrario”.

A dare forza a questa visione contribuisce la retorica presidenziale. Nel suo discorso inaugurale del 2017, Donald Trump parlò di American carnage, evocando un’America devastata da criminalità, immigrazione, declino morale. È un’immagine cupa, che contrappone un popolo “puro” a élite corrotte e nemici interni. Otto anni dopo, nel discorso al Congresso del 2025, Trump torna a usare gli stessi registri: la nazione è minacciata dall’interno, la democrazia deve difendersi dai “nemici del popolo” – un’espressione usata per designare, tra gli altri, giornalisti, attivisti, migranti, giudici. La narrazione democratica si trasforma così in una strategia identitaria, escludente, costruita sull’opposizione tra “noi” e “loro”.

Questa deriva retorica si inserisce in un movimento culturale più ampio, che da decenni cerca di ridefinire la democrazia non come inclusione delle differenze, ma come ritorno all’ordine e alla stabilità. In questa prospettiva, ogni rivendicazione di riconoscimento – razziale, di genere, religiosa – viene riletta come minaccia all’universalismo astratto della cittadinanza.

A questa tensione si somma quella, ormai strutturale, tra Presidenza e Congresso. Dalla Guerra del Vietnam a oggi, i due rami del potere federale si contendono la legittimità del comando, soprattutto in politica estera. La figura presidenziale si è rafforzata nei momenti di crisi, mentre il Congresso, sempre più frammentato, alterna slanci e paralisi. La democrazia americana si conferma così un sistema in cui il conflitto istituzionale è parte integrante del funzionamento, ma anche del rischio. Emblematico, in questo senso, il caso della celebre fotografia della Napalm Girl, che contribuì a scuotere l’opinione pubblica durante la guerra del Vietnam e a spingere il Congresso verso l’approvazione del War Powers Act nel 1973: una reazione simbolica e istituzionale all’eccessiva autonomia dell’esecutivo in materia militare.

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The Terror of War, di Nick Ut (1972).

Lungi dall’aver raggiunto la sua forma compiuta, la democrazia, negli Stati Uniti come altrove, è segnata oggi da fratture, crisi, reinvenzioni. In questo senso, parlare di margini in relazione alla parabola democratica, non significa solo denunciare ciò che manca, ma interrogare criticamente ciò che è stato incluso – e a quali condizioni.

In un’epoca segnata dal ritorno di pulsioni autoritarie e dalla crisi del discorso pubblico, il compito della storia è quello di restituire complessità alle parole e memoria ai diritti. La democrazia, ricorda Raffaella Baritono, non è un bene da conservare, ma una pratica da esercitare. Non un monumento alla stabilità, ma un terreno vivo, fragile, di lotta, dove la democrazia si rivela per ciò che è: una promessa esposta al rischio, un confronto incessante tra chi chiede voce e chi costruisce silenzio, tra chi reclama appartenenza e chi disegna i confini dell’esclusione.

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