Storia

L’ageismo

“Solo giovane è bello!”: su questo concetto è stata costruita buona parte delle strategie di marketing della seconda metà del Novecento

  • 3 ottobre 2023, 08:23
  • 8 novembre 2023, 09:34
Jane Fonda
Di: Romano Giuffrida

“Noi siamo i giovani più giovani dei giovani”: era il ritornello di una canzoncina incisa da Catherine Spaak nel 1964. In Italia il brano venne usato per accompagnare gli episodi pubblicitari di un’acqua minerale nel famoso Carosello dell’epoca. Le varie scenette che periodicamente venivano trasmesse, non lasciavano dubbi sul loro senso implicito. C’era un personaggio, non proprio longilineo e abbastanza imbranato (quasi un Fantozzi ante-litteram), dileggiato continuamente da sua moglie proprio per le sue fattezze e, come se non bastasse, invitato da lei a osservare il marito dell’amica che li accompagnava (marito agile, abbronzato, giovanile nonché tennista, cavallerizzo, sciatore o nuotatore a seconda dell’ambientazione dello spot), per prenderlo in giro, al termine degli sketch, ripetendogli: “vedi, lui ha quarant’anni, ma ne dimostra venti di meno!”. Inequivocabile il messaggio: bevendo quell’acqua (che il fusto in questione ingollava in grande quantità), si rimane giovani.

Quella pubblicità fu uno dei primi segnali a livello di comunicazione di massa di una mutazione culturale e sociale che avrebbe influenzato scelte, gusti e comportamenti nei decenni successivi. Anche se a quel tempo non lo si chiamava così, era infatti iniziata l’epoca dell’ageismo, ossia di quel atteggiamento nei confronti delle persone anziane costruito su stereotipi, spesso beffardi e discriminatori.

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“Solo giovane è bello!”: questo concetto su cui è stata costruita buona parte delle strategie di marketing della seconda metà del Novecento, affonda le sue radici all’inizio del XX secolo e ha un’origine che non ci si attenderebbe. E’ infatti da quando cominciò a diffondersi l’applicazione della catena di montaggio nelle fabbriche statunitensi che improvvisamente si affermò il mito della giovinezza. Perché? Perché l’età avanzata frenava i ritmi lavorativi delle macchine…

Nel contempo, lo sviluppo industriale delle tecnologie necessitava di menti giovani aperte all’innovazione e alla creatività, aspetti questi più difficilmente rintracciabili in persone anziane, generalmente meno disposte a mettere in discussione i propri saperi e modi di operare.

“Solo giovane è bello!”: da quel momento in poi anche i media, e soprattutto il cinema, cominciarono a esaltare quel concetto e a “farlo entrare” nella testa delle persone.

Sin da subito, infatti, lo star system si popolò di “giovinezze incantevoli” davanti alle quali, grazie al lavoro dei truccatori, il passare del tempo sembrava essersi arreso: Greta Garbo, Rita Hayworth, Marlene Dietrich, Rodolfo Valentino, Gary Cooper, Clark Gable diventarono icone con le quali il pubblico si confrontò e, va da sé, cercò di replicare.

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Anche se l’applicazione della chirurgia estetica risale a più di cinquemila anni fa, forse non è un caso che il primo corso universitario di chirurgia plastica si inauguri negli Usa proprio negli anni Venti, e che, da allora, il mercato corrispondente sia cresciuto a ritmi vertiginosi in tutto il mondo occidentale.

La “gerontofobia” (ossia il disagio non solo verso le persone anziane, ma anche rispetto al proprio processo di invecchiamento), tra le persone che giovani, anagraficamente, non potevano più definirsi, ha generato l’ossessione dell’eterna giovinezza e della super efficienza.

“Solo giovane è bello!”: e allora ecco la ricerca spasmodica di pelli morbide come la seta e senza rughe, di labbra carnose, di corpi senza adipe anche quando le decadi vissute cominciavano a poter essere contate sulle dita di due mani.

Nel sogno irrealizzabile di rendere immortale la giovinezza, soprattutto da quando negli anni Cinquanta i giovani si affermarono come gruppo sociale a se stante e “vincente” nella comunicazione dei media (James Dean, Elvis Presley, Marylin Monroe, ecc., i testimonial), uomini e donne hanno rincorso quelli che sono stati chiamati gli “anni verdi surrogati”.

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Nel corso del tempo, il sistema mediatico non ha favorito una riflessione più attenta sul desiderio dell’eterna giovinezza.

Basterebbe dedicare un po’ di tempo a riguardare in Rete pubblicità, servizi e spettacoli televisivi dagli anni Sessanta in poi, per osservare come i protagonisti principali siano via via diventati quasi esclusivamente i giovani: sempre belli, felici, efficienti, vincenti; parallelamente si potrebbe osservare anche come il mondo adulto circostante li abbia presi a modello, nel tentativo, inevitabilmente vano, di portare indietro le lancette del tempo.

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Le icone della moda, cioè le top model e gli omologhi maschili, presentandosi come incarnazioni degli unici modelli estetici vincenti, cioè giovani e con la totale assenza di imperfezioni imputabili a qualche defaillance della pelle, hanno poi reso ancora più ambita la giovinezza a chi non la viveva più.

Non potendo siglare patti con il diavolo, come invece fecero Faust e Dorian Gray, uomini e donne con l’afflizione da invecchiamento hanno allora scelto di investire le loro speranze nelle cliniche estetiche, nei centri di bellezza, nelle palestre e negli atelier di abbigliamento.

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L’obiettivo però era sempre quello di Faust e di Dorian Gray: ottenere un’apparenza fittizia che nascondesse il loro essere reale fatto di rughe sul viso (naturalissime), di capelli bianchi (altrettanto naturali), immaginandosi così di sconfiggere l’inarrestabile passare dei giorni, dei mesi e degli anni.

Per invecchiare ci vuole carattere

RSI Cultura 06.08.2019, 08:00

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Il risultato? Ogni valutazione è soggettiva e, soprattutto, vale il principio che ognuno è libero di vivere il proprio corpo come preferisce.

Se però si tiene presente il fatto che la ricerca dell’apparire giovani a tutti i costi è stata principalmente un bisogno indotto dal marketing per promuovere merci di ogni tipo, non è inutile,  tener presente l’invito che James Hillman, psicanalista junghiano e filosofo, rivolgeva alle persone non più giovani: fate il lifting non al viso, ma all’idea malata del mito della giovinezza con la quale qualcuno vuole che vi guardiate.

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