L’Unione Europea potrebbe usare meglio i propri fondi destinati a favore della libera circolazione dei lavoratori. A sostenerlo è un rapporto della Corte dei conti europea che ha preso in esame il funzionamento della più controversa tra le quattro libertà del mercato interno. Un rapporto speciale realizzato a 50 anni esatti dall'introduzione del regolamento della Comunità europea che nel 1968 aveva quali membri Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi.
I revisori dei conti non prendono una posizione politica, ma dalla loro analisi escono alcuni dati interessanti e, in generale, la convinzione che "la libertà fondamentale è garantita, ma un’assegnazione più mirata dei fondi UE faciliterebbe la mobilità dei lavoratori".
A 50 anni dall'introduzione della libera circolazione dei lavoratori
I cittadini europei che lavorano in uno Stato diverso dal loro, a 50 anni dall'adozione del regolamento del 1968, sono 11,3 milioni (dati del 2015), pari al 3,7% del totale della popolazione in età lavorativa. I paesi che maggiormente accolgono manodopera mobile (residenti e frontalieri) sono Germania (2,7 milioni) e Regno Unito (2,1). Quelli che invece ne hanno la proporzione più elevata (rispetto alla propria popolazione lavorativa) sono: Lussemburgo (43%), Svizzera (19%), Cipro (15%) e Irlanda (10%). I principali esportatori di forza lavoro sono invece Polonia e Romania.
Gli analisti hanno preso in considerazione proprio questi cinque paesi dell’Unione maggiormente toccati dalla mobilità lavorativa, per cercare di capire se e come vengono spesi i soldi europei in questo campo. Il rapporto giunge così alla conclusione che, se da un lato, la Commissione e gli Stati membri incoraggiano la gente a cambiare paese, dall'altro, potrebbero impiegare meglio i fondi a disposizione e migliorare la loro concezione. Bruxelles dovrebbe inoltre fare in modo che i lavoratori siano incitati a segnalare le discriminazioni.
Un portale da sfruttare meglio
L'attenzione degli estensori del rapporto speciale si è concentrata anche sul portale internet, Eures dal nome della rete europea di servizi per l'impiego alla quale, oltre ai 28, partecipano anche Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera. È stato concepito per aiutare la gente a trovare lavoro all’estero e le aziende a reclutare personale su tutto il territorio dell'UE. Da un lato sono presenti oltre 1,5 milioni annunci di posti vacanti. Dall'altro i curricula di poco meno di 370'000 candidati. Ma molti posti non vengono annunciati o sono annunciati male, per esempio senza indicare la data entro cui bisogna concorrere. Secondo la Corte dei conti bisognerebbe invece rendere lo strumento, esistente dal 1993, "un vero e proprio strumento europeo di collocamento".
Ci sono ostacoli persistenti
Se sulla libera circolazione di merci e capitali sono tutti d’accordo, o quasi, quella dei lavoratori (e quella dei servizi, che però è ancora molto parziale) provoca scintille, non solo in Svizzera. Il sì dei britannici alla Brexit (indicano diversi studi) è dovuto soprattutto al desiderio di controllare l’immigrazione. Ma tutto questo non viene affrontato dalla relazione speciale nella quale però si legge: "si lamentano ancora ostacoli persistenti che rendono difficile trasferirsi e lavorare in un altro paese (per esempio il riconoscimento dei diplomi professionali). Tali problemi permangono, benché la Commissione e gli Stati membri abbiano intrapreso numerose azioni per risolverli”.
La posizione di Bruxelles è nota: il mercato unico è indivisibile, non si può avere una libertà senza le altre. Al tempo stesso la Commissione sta cercando di mitigare gli effetti nefasti, come il dumping sociale o la pressione sui salari, seguendo il principio: a pari lavoro in un determinato luogo, pari salario. Che ci stia riuscendo, è un altro paio di maniche.
Diem/TM
RG 12.30 del 27.02.18: la corrispondenza di Tomas Miglierina
RSI Info 27.02.2018, 14:08
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