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Captagon, perché è chiamata “droga dello Jihad”

Cos’è e da dove viene la “cocaina dei poveri”, che riduce paura e dolore, usata anche dai miliziani di Hamas - L’esperto: “Niente giustifica un attacco sui civili. E sicuramente non è riducibile all’assunzione di sostanze”

  • 29 ottobre 2023, 06:57
  • 29 ottobre 2023, 16:43
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Un militante di Hamas apre il fuoco su civili nel kibbutz di Be'eri (7 ottobre 2023)

  • Reuters
Di: Massimiliano Angeli

“Non è il Captagon che ha determinato la violenza dell’eccidio compiuto da Hamas in Israele il 7 ottobre. Questa anfetamina sintetica è semplicemente un abilitante, un potenziante, ma la pianificazione è a monte. Ed è stata fatta non sotto l’effetto del Captagon”. Così ai microfoni della RSI il professor Andrea Raballo, direttore della cattedra di psichiatria dell’Università della Svizzera Italiana e direttore della formazione della ricerca accademica dell’Organizzazione sociopsichiatrica cantonale (OSC), commentando le ricostruzioni del Jerusalem Post (poi riprese da diverse testate internazionali), secondo cui l’esercito israeliano avrebbe trovato pillole di captagon nelle tasche dei combattenti di Hamas penetrati in Israele.

“Non c’è nessuna ragione geopolitica, nazionalistica, politica che possa giustificare un attacco su civili a freddo e con questo tipo di violenza senza freni. E sicuramente non è riducibile all’assunzione di sostanze, perché c’è una pianificazione dietro, non è un’orda che si muove”, sottolinea Raballo. 

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Pillole di Captagon

  • Reuters

Come ha fatto il Captagon a diventare una sostanza diffusa?

“È diffusa perché è facilmente sintetizzabile. È una sostanza con una produzione non complessa, a bassi costi e commerciarla in un sistema come quello attuale è molto facile”. “Indubbiamente tracce di composti simili sono state trovate anche in molti attentatori in Europa, tra cui quelli del Bataclan (attentati di Parigi del 2015 n.d.r.), per cui c’è un filo che l’ha fatta denominare come “droga dello Jihad”. Ovviamente è un nome puramente sensazionalistico”, sottolinea Raballo, che ha operato anche in un gruppo consultivo per l’European Counter Terrorism Center dell’Europol, nel suo braccio dedicato alla propaganda online, per contrastare l’Isis.

“Il Captagon si assume per bocca ed è una droga che ha diverse possibilità di utilizzo. Ha effetti eccitanti, disinibenti, ha questo carattere di aumento della sensazione personale, di autoefficacia, di forza, una sorta di espansione dell’umore. Riduce la paura, il dolore. Crea anche un forte distacco affettivo, per cui alcune azioni sono la risultante di una forte disinibizione. Dopodiché va distinto l’utilizzo edonistico o “extra bellico” da quello di potenziamento militare o terroristico. Nel qual caso non fa parte di una sostanza di abuso, c’è una scelta operativa per aumentare il rilascio di violenza in quell’azione, l’efficienza con cui viene perpetrata la violenza”.

Che storia ha il Captagon?

“Il Captagon è un’anfetamina sintetica che si conosce almeno dagli anni ’60. Aveva anche un uso medico, per situazioni di disturbo da deficit di attenzione-iperattività, poi, piano piano, è passata in secondo piano, con i suoi derivati, ed è diventata una sostanza di abuso, con vari epicentri e in vari contesti – spiega Raballo -. È tornata alla notorietà mediatica intorno al 2016, con l’esplosione bellica che c’è stata in Iraq, in Siria, per via dell’Isis che, in pochissimo tempo, ha di fatto costituito uno Stato clandestino a cavallo di due regioni”.

Diversi media (da RTS a Euronews, da Al Jazeera a Le Temps) hanno svelato, in questi anni, come la Siria sia diventato un centro di produzione del Captagon.

“Ho informazioni simili anch’io rispetto al fatto che ci siano produzioni in Siria, legate anche all’utilizzo sistematico che ne veniva fatto ai tempi dell’Isis. Di fatto è un prodotto che ha un suo mercato ampio, in vari Paesi, non solo limitato alle aree di religione islamica. Però è vero che c’è un percorso di diffusione che ha come epicentro essenzialmente i Paesi coinvolti in questi ultimi anni in rivolte armate, in conflitti”, sottolinea Raballo.

Dopodiché l’utilizzo di sostanze psicotrope in contesti militari non è una novità, né una specificità degli ultimi anni...

“Dalle tradizioni norrene (con il corpo scelto dei berserkr vichinghi) ai Maya (che a quanto pare assumevano sostanze prima del combattimento) ai guerrieri Masai, fino ad arrivare alla seconda guerra mondiale, non è affatto raro come elemento, perché queste sostanze da un lato riducono le inibizioni, la soglia del dolore, dall’altro consentono un’estensione delle capacità di attenzione superiore, quindi facilitano azioni rapide e incisive per cui, per esempio, nell’esercito nazista erano state utilizzate per l’invasione dell’Olanda e della Polonia (per consentire ai carristi una maggior attività) e lo stesso valeva per l’aviazione. Fa parte di quei dispositivi di potenziamento bellico che non hanno a che fare con le armi dirette, ma hanno anche questa possibilità di utilizzo. È anche vero che in alcuni contesti sono state utilizzate per aumentare la produzione industriale e questo è stato fatto in Giappone, per esempio, sempre nella seconda guerra mondiale. Gli stessi composti anfetaminici che in Germania venivano utilizzati a scopo direttamente bellico, in Giappone erano essenzialmente utilizzati per aumentare la produzione militare nelle fabbriche”, dice Raballo.

Le violenze sui civili del 7 ottobre hanno una funzione strategica?

“Ci sono contaminazioni di violenza in molti contesti bellici: la crisi in Ucraina, come quella in Siria o in Nagorno-Karabakh, dimostrano che spesso ci sono azioni che non sono esclusivamente militari, ma che hanno forti componenti di crimine contro l’umanità, perché c’è una violenza sui civili del tutto immotivata dal punto di vista strettamente bellico. Nel caso, però del 7 ottobre, quello che è successo è una sorta di ingigantimento di un atto terroristico, stile Bataclan, portato contro una nazione con una funzione strategica di altro tipo, cioè inoculare, per generazioni, disperazione, risentimento e odio, in modo da propagare nel tempo uno stato ulteriore di impossibilità di risolvere il conflitto”.

È un nuovo modo di condurre una guerra?

“No, è un ibridizzazione perché le atrocità fanno parte delle condotte belliche. Questa però è più un evento di matrice terroristica, che si pone come potenziale innesco di una guerra, ma l’11 settembre è stata la stessa cosa: un evento terroristico che poi ha creato ricadute di tipo bellico. L’esposizione mediatica crea una serie di riverberi, per cui (come in parte nel 2016), si hanno azioni di lupi solitari, che compiono micro-attentati per esempio, creando una situazione di micro-focolai diffusi. E in più questi eventi servono anche a creare una sorta di onda d’urto mediatica, per cui in diverse parti del mondo si svolgono manifestazioni pro e contro. Di fatto si sta creando una crisi regionale, che può diventare una crisi globale”.

Cosa risponde a chi cerca di giustificare le violenze contro i civili?

“Che ci sono soglie etiche ben riconoscibili, che si conservano anche in teatri di conflitto, di crisi, di ostilità. E questo livello etico credo che difficilmente possa essere mascherato anche a livello religioso, a meno che non ci sia una componente latente per cui l’altro essere umano non è considerato un altro essere umano, perché ontologicamente appartiene a una categoria differente. Cioè è questo il messaggio: se tu non sei un essere umano, che tu sia un bambino, una ragazza che va a ballare o una famiglia in un rifugio anti-bomba, è uguale, perché puoi essere ammazzabile come una formica. È questo il messaggio traumatico di fondo: c’è una disumanizzazione a prescindere della persona, per cui è possibile compiere questi atti e addirittura scriverli in una narrativa eroica di difesa dei diritti nazionali o storico-geografici. E invece no. Un atto di questo tipo non ha nessun tipo di giustificazione, anche con qualunque ammantamento teologico, perché è un atto anti-umano. Nell’ideazione proprio. Già a livello di ideazione è un atto anti-umano”.

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