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Coronavirus, "tutti abbiamo oscillato"

Negli USA i contagiati aumentano -"Difficile trovare un equilibrio tra emergenza sanitaria ed economica", parla il patologo Guido Silvestri dell’Emory University di Atlanta

  • 26 marzo 2020, 12:37
  • 22 novembre, 19:40
05:43

Modem del 26.03.2020: l'emergenza coronavirus negli USA, l'intervista al patologo Guido Silvestri dell’Emory University di Atlanta, di Emiliano Bos

RSI Info 26.03.2020, 12:44

  • Keystone
Di: Modem - Emiliano Bos/AlesS 

Negli Stati Uniti il coronavirus è in piena espansione. Sono mille le persone morte e quasi 70'000 quelle contagiate. Un terzo dei casi sono registrati a New York, che con Seattle, Chicago e New Orleans sono le zone più colpite. Mancano respiratori, materiale di protezione e personale medico. L’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato inoltre l’allarme: se i numeri continuano a salire, entro la fine della settimana il paese potrebbe essere il più colpito in tutto il mondo.

Il professore Guido Silvestri

Il professore Guido Silvestri

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Ma come sta gestendo l’emergenza l’Amministrazione Trump? L’intervista al patologo di fama internazionale e direttore del Dipartimento di Microbiologia e immunologia dell’Emory University di Atlanta Guido Silvestri.

Come si sta muovendo il virus negli Stati Uniti?

A New York, dove i colleghi hanno aumentato la capacità di fare test, adesso ci sono decine di migliaia di persone infettate. Questo aspetto mette in luce un lato positivo e un lato negativo: l’aspetto negativo è che è quasi impossibile contenere la malattia, a questo punto, si possono sì adottare misure di isolamento che sicuramente aiutano ma è chiaro che il virus è fuori dalla gabbia in tutto il mondo. L’aspetto positivo è che probabilmente la mortalità ( il denominatore dei casi è molto più alto) è molto più bassa.

Negli Stati Uniti ci sono Stati particolarmente colpiti e altri no, come mai un contagio così a macchia di leopardo?

Credo che il quadro sia parziale. Un aspetto che stiamo notando è che questa epidemia forse prenderà una faccia diversa in diversi paesi ma forse anche in diverse città e in diverse zone, in reazione a fattori, alcuni dei quali crediamo di capire, altri che forse non ancora riusciamo a individuare. Per esempio nel Nord Italia e ora anche a Madrid, New York e Seattle sembra che ci sia una combinazione letale tra avere molta popolazione, un certo tipo di clima relativamente simile nella fase finale dell’inverno e inizio primavera e il fatto che il sistema sanitario faccia fatica a gestire un numero molto alto di persone che richiedono un supporto respiratorio. In altri posti sembra che per fattori ambientali o sociali la situazione sia più sotto controllo. Ci sono ancora delle cose che non conosciamo. E per questo motivo dobbiamo continuare a studiare la parte epidemiologica della malattia mentre gestiamo l’emergenza clinica.

Un’emergenza che a New York come in Lombardia si fa fatica a gestire…

Ci sono molte cose che facciamo ancora fatica a capire. Però in questo momento quello che è importante saper gestire l’emergenza. Credo che siamo tutti d’accordo che per un certo periodo bisogna mettere il cartello chiuso per virus nella nostra società e permettere agli ospedali di gestire un numero di infezioni molto alto perché anche qui ad Atlanta per esempio per ora reggiamo ma siamo un’area metropolitana di 5-6 milioni di abitanti con molte centinaia di persone di età avanzata quindi se ci troviamo ad affrontare un’ondata di 50’000-100'000 anziani che vengono tutti in ospedale con sintomi di coronavirus anche severi diventerà veramente difficile o impossibile gestire il tutto. Quindi, è fondamentale ora diluire il numero dei casi, se no si rischia veramente il collasso. Credo che questo sarà un test per la sanità americana, sarà importante usare questa crisi anche come opportunità per rivedere alcuni concetti come la sanità è gestita e viene amministrata.

Il presidente Donald Trump più che guardare all’emergenza sanitaria, sta guardando oltre, vorrebbe riaprire il paese già per Pasqua. E’ troppo presto, pensare già al dopo?

Sono contento che mi fa questa domanda perché è una domanda fondamentale. Noi abbiamo due esigenze in questo momento che purtroppo non sono perfettamente allineate: abbiamo l’esigenza di gestire un’emergenza sanitaria e abbiamo l’esigenza di non fermare completamente l’economia, anche perché se lo facciamo poi ne paghiamo un prezzo, in ultima analisi, sanitario. Lei può immaginare che se per esempio smettiamo di fare tutti i programmi di prevenzione per il cancro ci troveremo da qui a sei mesi con un aumento enorme di mortalità per cancro e per malattie che sono prevedibili. Quindi non possiamo chiudere tutto. Poi c’è l’economia ovviamente, che deve comunque andare avanti perché è il nostro modo di vivere. Sono due esigenze che devono essere in un qualche modo misurate.

Però per la prima esigenza, ossia quella sanitaria, per molti negli Stati Uniti la risposta dell’Amministrazione Trump è sembrata davvero tardiva. Lei ha questa impressione?

Ma io credo che tutti noi abbiamo in qualche modo oscillato. Da un lato c’è il desiderio di prendere tutte le dovute precauzioni, che alle volte può creare anche delle paure, delle forme di panico, anche delle forme di chiusura, e dall’altro canto c’è il rischio di sottovalutare e quindi non si prendono certi provvedimenti e l’infezione si diffonde molto rapidamente.

In America si è diffusa rapidamente, la percezione è stata quella di un approccio al ribasso, prima il tentativo di minimizzare da parte di Trump e poi la mancanza di test e materiale sanitario, non crede?

Sicuramente c’è stata una fase in cui l’Amministrazione è andata nella direzione di minimizzare, questo però è stato fatto sinceramente un po’ dappertutto. Se si ricorda in Cina uno dei medici che aveva descritto la malattia è stato messo sotto processo. C’è stata questa tendenza un po’ a minimizzare. E poi c’è una tendenza anche opposta in alcuni casi. Bisogna trovare una via di mezzo per gestire come dicevo prima l’emergenza sanitaria e l’esigenza di non fermare il nostro modo di vivere.

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