“La Cina sostiene e incoraggia lo sviluppo delle imprese private ma per mantenere un buon ambiente imprenditoriale non dobbiamo lasciare che i cattivi ragazzi crescano selvaggiamente e siano prepotenti coi bravi ragazzi”. Il media finanziario cinese 21st Century Business Herald racconta così l’ordine di liquidazione di Evergrande, deciso da un tribunale di Hong Kong. Ultimo di una serie di segnali che dimostrano come per Pechino la sorte del suo ex primo sviluppatore immobiliare sia ormai considerata un effetto collaterale di una situazione ben più ampia dove trovano spazio anche considerazioni di tipo politico.
La decisione della giudice Linda Chan, che ha sottolineato “una evidente mancanza di progressi” nei negoziati per un piano di ristrutturazione del debito, non arriva certo all’improvviso. Già negli scorsi mesi erano stati concessi diversi rinvii e una tregua per dare più tempo a Evergrande di provare a trovare un accordo coi creditori. Ma l’azienda, schiacciata da un debito di oltre 300 miliardi e invischiata in guai giudiziari, non è mai riuscita a fare passi avanti concreti nelle trattative coi creditori esteri.
Che succederà ora? Verranno nominati i liquidatori che prenderanno il controllo delle unità aziendali e metteranno in vendita i beni per ripagare i debiti. O, qualora si facesse fatica a trovare acquirenti, potrebbero anche proporre un nuovo piano di ristrutturazione. Ma non è ancora del tutto chiaro in che modo la sentenza di Hong Kong venga applicata nella Cina continentale, che ha un ordinamento giudiziario diverso da quello dell’ex colonia britannica. Prima che i rappresentanti di Evergrande vengano sostituiti e prima che le unità aziendali passino di mano potrebbero passare diversi mesi, senza contare che alcuni dei beni sono già congelati e gestiti dalle autorità provinciali che cercano di portare a termine la costruzione delle migliaia di case già vendute.
Proprio questo è l’aspetto che sta più a cuore del governo cinese, desideroso di evitare che i problemi economici del settore immobiliare possano portare a conseguenze sul piano sociale e dell’ordine pubblico. Allo stesso tempo, Pechino potrebbe essere interessata a tutelare almeno in parte i creditori esteri (che si aspettano un tasso di recupero inferiore al 3%), per evitare il rafforzamento della sfiducia internazionale sul settore immobiliare cinese.
Ma all’orizzonte non si vedono piani di salvataggio. Anzi, la crisi di Evergrande nasce da lontano. La sua ascesa, iniziata negli anni Novanta, incontrò due tendenze storiche: urbanizzazione e ampliamento della classe media. Il modello di crescita adottato dall’azienda, e tante altre, si è poggiato sugli investimenti a debito. Il tutto ha favorito la creazione di una bolla che ha coinvolto il sistema bancario ombra dei fondi fiduciari e le casse provinciali, entrambi parecchio esposti a un settore che ha sempre fatto da traino all’economia cinese come l’immobiliare.
Già nel 2017, il presidente Xi Jinping ha tracciato quelle che sono state definite “linee rosse” per lo sviluppo del settore, cercando di cambiare un modello troppo rischioso. Evergrande, la realtà più grande ma anche più indebitata, ha iniziato subito a scricchiolare. Le crepe si sono allargate con la pandemia di Covid-19 e la crisi dei consumi. Già dall’autunno 2021 l’azienda è finita in default su diverse obbligazioni, incapace di ripagare i debiti. Negli scorsi mesi, il suo fondatore Xu Jiayin, un tempo uomo più ricco d’Asia, è stato messo ai domiciliari e la sua unità interna di punta (Hengda Real Estate Group) è finita sotto indagine dell’autorità cinese di regolamentazione dei titoli e le sue manovre sono state di fatto congelate.
Il destino di Evergrande, insomma, pareva segnato da tempo. Pechino cerca ora di farne un esempio da non seguire, allo stesso tempo provando a salvaguardarne l’operabilità interna minima per terminare le case già vendute. E sperando allo stesso tempo di interrompere il contagio che ha colpito tutto il settore. Va bene pregiudicare qualche decimale di crescita per l’obiettivo politico di un cambio di modello di sviluppo, ma non va superata un’altra linea rossa, quella che oltre cui si rischia un effetto domino.