Reportage

I giovani israeliani che bloccano gli aiuti per Gaza

Non sono solo i coloni più estremisti a fermare i convogli umanitari verso la Striscia, ma anche giovani generazioni di israeliani

  • 21 maggio, 05:39
  • 25 settembre, 12:37
FOTO 1 - giovani israeliani bloccano un tir sulla Statale 35 - FOTO di MASSIMO PICCOLI - RSI.jpg

Giovani israeliani bloccano un tir sulla Statale 35

  • Foto di Massimo Piccoli / RSI
Di: Emiliano Bos, Inviato RSI in Israele e Cisgiordania

Un passaparola fulmineo. Sui social corre più veloce dei pesantissimi auto-articolati carichi di aiuti umanitari. Rimbalza sui cellulari di giovani israeliani nei villaggi oltre il confine tra la Cisgiordania e lo Stato ebraico. Entrano in azione sulla Statale 35 che da Hebron scende tra boschi di cipressi e pini allineati su rettangoli gialli già indorati di spighe. Sembra la Toscana, invece questo nastro d’asfalto si srotola fino alla Striscia di Gaza. In linea d’aria, una trentina di chilometri. Ma visti da qui, sembrano un abisso.

“Da qui non si passa”

Appuntamento alla rotonda per Lakhish, piccolo villaggio prima della cittadina semi-industriale di Kiryat Gat. In poche decine di minuti arrivano alla spicciolata una quarantina di adolescenti, non ne vediamo nessuno armato – in un paese dove si può circolare liberamente con una mitraglietta automatica a tracolla. Ci sono anche delle ragazze, sneaker ai piedi e gonne nere tradizionali. In un attimo piazzano un blocco di pietra davanti al segnale di “Stop” all’imbocco della rotatoria. Il camion è bloccato. Battibecco con l’autista. Gli assalitori gli chiedono i documenti per accertarsi se sia palestinese. Tensioni con gli agenti di polizia appena giunti sul posto, tra qualche colpo di clacson di approvazione e una pattuglia di militari che si aggiunge per provare a bloccare i giovani.

“Non possiamo permettere che gli aiuti passino di qui” spiega mantenendo toni cordiali Itay Naaman, 18 anni e un lavoro saltuario nel settore della sicurezza. “Il governo di Israele invia questo materiale a Gaza, ad Hamas. Noi non vogliamo permetterlo: per questo blocchiamo i camion. E se provano a proseguire, allora apriamo i cassoni, buttiamo tutto il carico e lo incendiamo”. Lo avevano già fatto nei giorni scorsi, al vicino valico di Tarkumiya, che separa i Territori occupati palestinesi da Israele. Lì c’è una sorta di dogana commerciale: una quindicina di camion bruciati, quintali di aiuti umanitari andati fumo.

FOTO 2 - l'intervento delle forze dell'ordine impedisce il blocco degli aiuti umanitari - FOTO di MASSIMO PICCOLI - RSI.jpg

L’intervento delle forze dell’ordine impedisce il blocco degli aiuti umanitari

  • Foto di Massimo Piccoli - RSI

“I civili? Non ricevono nulla”

Chiedo a Itay se non si senta a disagio bloccando gli aiuti destinati a quasi 2 milioni e mezzo di civili palestinesi in condizioni umanitarie disperate. “Certo che ci pensiamo…, non lo possiamo ignorare”. Alla RSI dice che una parte di questo cibo “potrebbe andare ai civili. Ma la maggioranza dei civili sostiene Hamas e Hamas prende il controllo degli aiuti umanitari. Per questo interveniamo: gli aiuti diretti a Gaza servono a uccidere i nostri soldati”. La maggior parte degli aiuti – è il suo parere – “non finiscono alla popolazione civile”.

FOTO 3 - gruppi di giovani israeliani autoconvocati via social media- FOTO di MASSIMO PICCOLI - RSI.jpg

Questi gruppi di giovani israeliani si autoconvocano via social media

  • Foto di Massimo Piccoli - RSI

Lo zucchero di Gaza

“Non meritano di ricevere aiuto: l’altro giorno io ho aperto e distrutto decine di sacchi di zucchero” racconta un ragazzo con la kippah e i brufoli. Avrà al massimo 15 anni. Afferma di aver partecipato all’assalto ai camion avvenuto qualche giorno prima a Negohot, sul lato palestinese del confine. Non possiamo verificare se questo corrisponda al vero. “Ma cosa se ne fanno a Gaza di tutto questo zucchero?” chiede in un inglese zoppicante. Gli spiego che da 8 mesi lì è in corso un assedio, con la popolazione civile stremata dalla violentissima risposta militare di Israele all’orrendo crimine compiuto da Hamas contro civili e soldati israeliani il 7 ottobre. “Ma erano sacchi da 25 chili. Come fanno a usarli?” continua il ragazzo, confermando una totale ignoranza del contesto e della realtà documentata da migliaia di video sui social da attivisti e giornalisti palestinesi (oltre 130 operatori dell’informazione sono stati uccisi a Gaza dall’esercito israeliano). Altro che zucchero. Non c’è nulla di dolce qui. Ma l’amara constatazione che ciascuno vive all’interno della propria narrazione. Totalmente inconsapevole della sofferenza dell’altro. Interviene la madre del ragazzo, l’unica adulta presente al blocco stradale.

La mamma che abitava nella Striscia

“Mia nonna è stata uccisa dai nazisti nel campo di Bergen-Belsen. Quando i ragazzi hanno bloccato un camion c’erano pacchi dalla Germania: capisci? Loro aiutano i palestinesi che ammazzano gli israeliani. No, non lo posso accettare”. Parla tutto d’un fiato ma non vuole rilasciare dichiarazioni davanti alla telecamera questa signora. Sostiene di aver vissuto per 11 anni nell’insediamento ebraico di Gush Katif nella Striscia di Gaza. Venne smantellato nel 2005 da Ariel Sharon. Lei tornerebbe a Gaza, come vorrebbero gli estremisti di destra che sostengono l’attuale governo di Netanyahu? “No, ne ho avuto abbastanza: la mia casa è stata colpita 5 volte dai missili di Hamas”. Le chiedo però perché impedire la consegna di aiuti a mamme come lei, a nonne, anziani, disabili, bambini, ammalati… “Mi spiace: tutti, ma proprio tutti, a Gaza sostengono Hamas. Lì nessuno è innocente”.

FOTO 4 - dall'altra parte del confine in Cisgiordania sono soprattutto i coloni a bloccare i convogli diretti a Gaza- FOTO di MASSIMO PICCOLI - RSI.jpg

Dall’altra parte del confine in Cisgiordania sono soprattutto i coloni a bloccare i convogli diretti a Gaza

  • Foto di Massimo Piccoli - RSI

“Siamo la destra di Israele”

L’unica altra persona non giovanissima presente all’assalto al tir è Eyal. Abita a Bet Shemesh, una ventina di chilometri da qui. Mi mostra il video di un giovane uomo pochi minuti prima dalla polizia. “Aveva chiesto i documenti all’autista di un camion, gli agenti l’hanno fermato perché occupava una strada”. Eyal si muove con consapevolezza. È uno dei pochi che non sembra arrivato qui spontaneamente all’ultimo minuto. Gli chiedo se è lui l’organizzatore della protesta per bloccare gli aiuti su questa strada. “No, abito solo qui vicino e quindi vengo qui quando ci sono i blocchi stradali”. Itay, il ragazzo incontrato all’inizio, tenta invece a darsi una collocazione politica: “Io rappresento la destra di Israele. Ci sono due parti: chi sostiene Hamas e i palestinesi e poi ci siamo noi, gli “yameen”, che vogliamo mettere fine a tutto questo. Siamo la destra”.           

FOTO 5 - la traduzione dei messaggi sulla chat dei coloni che bloccano i convogli umanitari - FOTO RSI.jpg

La traduzione dei messaggi sulla chat denominata “Coloni contro gli aiuti umanitari ad Hamas”

  • Foto RSI

Il tam-tam via chat

I giovani della rotonda di Lakhish non sono coloni. Abitano in Israele. Colpisce questa mobilitazione trasversale: l’idea di impedire l’assistenza umanitaria è così condivisa? Quanto diffuso è questo sentimento? Quanta parte di Israele è davvero pronta ad affamare i palestinesi di Gaza?

I coloni non hanno dubbi. Appena dall’altra parte del confine però, nelle stesse ore, c’è Joseph. È il sedicente portavoce del gruppo “Coloni contro gli aiuti umanitari ad Hamas”. Mi scrive: “In mattinata abbiamo provato a bloccare degli aiuti a Ashdod” in territorio israeliano. Poi mi dà appuntamento al terminal dei camion di Tarkumiya, in Cisgiordania. Nel giorno in cui lo contatto crea una nuova chat. In poche ore, centinaia di adesioni. Nei tre giorni successivi, quasi a mille iscritti. Il tam-tam è rapidissimo. “Chiunque possa aiutare nelle incursioni agli incroci o chi vede i camion quando passano dovrebbe scattare una fotografia e chiamare uno dei membri del gruppo”, è il messaggio che arriva nel primo pomeriggio. Il sostegno si moltiplica. La percezione è che questa forma di protesta radicale – incomprensibile a molti, perché si realizza attraverso la negazione di cibo e aiuti indispensabili ai civili – stia prendendo piede anche tra le fasce meno estremiste. “Grazie a tutti quelli che mandano foto, che aiutano, e soprattutto a quelli che si attivano per bloccare gli aiuti a qualsiasi prezzo. Siete l’orgoglio di Israele”, è il messaggio che compare sulla chat alle 17:53. Difficile capire quanto tutto questo sia rappresentativo della società israeliana oggi.

Gli assalti dei coloni

Da mesi ormai gli attacchi contro i camion avvengono soprattutto in Cisgiordania. Prendono d’assalto i convogli umanitari diretti ad alleviare le sofferenze dei civili a Gaza. Bloccano i camion, bruciano il carico e si filmano per postare in rete le loro “imprese”. Ma non vogliono i giornalisti. “Mi raccomando: se ti chiedono di non filmare devi rispettare la privacy” mi scrive Joseph invitandomi a uno dei loro raduni. Con loro non è facile ragionare. Hanno posizioni estreme. E non gradiscono intrusioni. Alle 18:43 Jospeh mi scrive che si accamperanno al valico dei camion. “Però mantieni il segreto, mi raccomando”.

Per decine di volte i coloni hanno preso di mira i convogli diretti a Gaza. Sia in Cisgiordania che a ridosso della Striscia. Lo ha documentato di recente anche il britannico “Guardian”. Nel mio caso, basta aprire la chat che rimanda ad altri gruppi. Le immagini sono li, a documentare di una forma estrema di protesta: impedire la consegna di beni di prima necessità a – letteralmente – milioni di persone che li aspettano.

FOTO 6 - Un gruppo di israeliani ha creato i cosiddetti guardiani umanitari per contrastare i blocchi dei coloni- FOTO di MASSIMO PICCOLI - RSI.jpg

Un gruppo di israeliani ha creato i cosiddetti guardiani umanitari per contrastare i blocchi dei coloni

  • Massimo Piccoli- RSI

La risposta dei “guardiani umanitari”

Magliette viola e cappellini, arrivano in pullman nella zona del valico di Tarkumiya. A guidarli Alon-Lee Green, condirettore dell’associazione per il dialogo israelo-palestinese “Standing Together”. I coloni li bollano come “leftists”, “gente di sinistra”. Loro invece, in questa iniziativa nata da pochi giorni, si auto-definiscono “guardiani umanitari”: cercano di impedire ai coloni il blocco degli aiuti. Ieri, domenica, ci sono riusciti. Hanno chiesto e ottenuto l’intervento della polizia, che ha fermato gli assalitori israeliani permettendo così il transito dei convogli diretti nella Striscia di Gaza.

I valichi via terra in realtà sono stati chiusi a lungo. E lo sono tuttora, su decisione del governo di Netanyahu in cui i dissensi interni ormai sono evidenti: dapprima il ministro della Difesa Gallant ha sfidato apertamente il premier. Poi uno degli alleati del gabinetto di guerra, Benny Gantz, ha posto un ultimatum chiedendo a Netanyahu di definire una strategia post-guerra entro l’8 giugno.

Con i valichi chiusi, la soluzione di paracadutare aiuti umanitari si è rivelata parzialmente inefficace (con diversi palestinesi uccisi dagli stessi carichi umanitari). L’altra è l’approdo via mare: gli USA – dopo aver fornito armi per miliardi di dollari usate per l’assedio a Gaza – ora hanno costruito un molo che potrebbe consentire lo sbarco di convogli.

Ma non è solo una questione di logistica. La catastrofe umanitaria di quasi 2,5 milioni di palestinesi accende il dibattito interno in Israele. “La nostra battaglia – afferma il responsabile dei “Guardiani umanitari” israeliani – non riguarda solo gli aiuti umanitari, ma anche la battaglia per la nostra società, c’è in gioco la nostra capacità di rimanere umani”.

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