Park Slope è il quartiere della “Brooklyn bene”: case a schiera in arenaria rossa, viali alberati e qua e là negozi e caffè sofisticati il giusto. In quest’isola di New York, gentrificata e borghese, da cinquant’anni è aperta una cooperativa che più d’uno ha definito l’ultima utopia socialista d’America. Si chiama “Food Coop”, è stata inaugurata nella primavera del 1973 e da quarantacinque anni occupa la stessa sede in Union Street. L’insegna verde all’esterno è assai modesta, ma il viavai è continuo e tutti – proprio tutti – a Brooklyn la conoscono sebbene farvi la spesa, in fondo, sia assai esclusivo.
L'esterno della cooperativa
Non per l’alta qualità o la ricercatezza dei prodotti (fu il primo posto a New York, ironizzava una guida gastronomica, dove trovare il “kale” [un tipo di cavolo]), né per il loro prezzo – anzi! – ma perché per potervi entrare e fare provviste devi esserne socio pagando una quota una tantum di 25 dollari. Ma essere membro della cooperativa comporta un’altra condizione: bisogna lavorarci per almeno due ore e quarantacinque minuti ogni sei settimane. Joe Holtz, uno dei dieci pionieristici fondatori, dettaglia condizioni e storia con gentilezza e zelo: i soci sono quasi 16’000, ogni settimana ne lavorano 2’000, 285 ogni giorno, ma non tutti lavorano o possono farlo (circa 3’000 sono esentati, per età, ragioni di salute o perché hanno già lavorato per almeno venticinque anni). Inoltre, vi sono un’ottantina di impiegati, la maggior parte a tempo parziale.
L'esterno della cooperativa
L’esito di questa certosina organizzazione è un negozio dove si possono acquistare cibi di qualità a metà (!) del prezzo pagato altrove, “il costo maggiore per la gestione di un negozio così, chiosa Joe, è la manodopera. E l’80 percento di chi lavora da noi non lo paghiamo”. Prezzi inferiori, offerta ampia, ma alcuni prodotti non ci sono. Non c’è la Coca-Cola, “a causa della sua politica commerciale”, mi viene spiegato, così come in passato sugli scaffali non figuravano le mele dal Sud Africa dell’Apartheid o l’uva dal Cile di Pinochet. “Si fa una scelta mettendo i prodotti sugli scaffali, spiega Joe, possiamo far finta di niente e dire che siamo “solo in un negozio di alimentari”, ma qui siamo una democrazia e sono i membri a decidere cosa mettere in vendita”.
L'interno della cooperativa
Anche fare lo shopping, per dirla alla Gaber, è un gesto politico. Ma, accantonati contabilità e principi, in un quartiere di due milioni e mezzo di abitanti come Brooklyn, la Food Coop sembra rispondere anche a qualcosa d’altro: a un bisogno di appartenenza, di sentirsi legati a un luogo, di una comunità. Il clima tra gli scaffali e alle casse è disteso, la cortesia non di facciata, i volontari solerti, il loro operato puntiglioso. Nella “Fortezza della solitudine”, come l’aveva chiamata lo scrittore Jonathan Lethem nato proprio qui, l’esperimento della “Food Coop” offre un’esperienza comunitaria che tutti i singoli clienti/commessi inseguono e paiono amare. È questa l’“utopia socialista”?, incalzo sorridendo Joe Holtz e lui risponde di no. “La cooperativa è solida perché le persone vi partecipano, dice, quando la gente sente questo legame, questa appartenenza allora questo luogo, la Coop, è solida e forte”.
Joe Holtz
Rispetto a quando la Food Coop venne inaugurata il quartiere è meno multietnico e il clima politico assai diverso. “Eravamo contro il Governo, contro la guerra in Vietnam, contro il sistema di approvvigionamento e di distribuzione americano… erano gli Anni Settanta!”, ricorda Joe Holtz. Cosa ha imparato in questi anni il vecchio hippie?, chiedo, curioso della parabola ideologica di questa esperienza che non è solo commerciale. “Che per far le rivoluzioni non bastano venticinque anni e forse neppure cinquanta – replica Joe schernendosi –, ma è bello aver creato una simile comunità rispondendo a un bisogno primario come quello del cibo”.
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