Il 25 aprile scorso rimane una data storica nella lotta contro i cartelli della droga. Dopo quasi 40 anni il co-fondatore del cartello di Sinaloa, il più potente in Messico, Ismael Zambada “El Mayo” è finito in manette. Ma non è avvenuto in Messico. Secondo quanto dichiarato da El Mayo stesso, sarebbe caduto in una trappola organizzata da Joaquín Guzmán López, uno dei figli di El Chapo, che lo invitò a incontrare due figure politiche nello stato settentrionale di Sinaloa. Una volta arrivato, però, sarebbe stato assaltato, incappucciato, e portato a forza sull’aereo che tre ore dopo è atterrato in territorio statunitense. Qui Joaquín Guzmán si sarebbe consegnato volontariamente alle autorità, portando con sé “El Mayo”. Sono dichiarazioni contenute nella lettera scritta da El Mayo stesso e pubblicata dal suo avvocato, nella quale ha negato categoricamente di essersi arreso di sua volontà.
In questa operazione il grande assente è il Messico, rimasto all’oscuro degli eventi.
Sono molte le agenzie statunitensi impegnate nella lotta al traffico di droga, la DEA (Amministrazione anti-droga), il Dipartimento di sicurezza interna (DHS), oltre all’amministrazione per le investigazioni federali (FBI). Ogni operazione dovrebbe avvenire in collaborazione con la controparte messicana. Una relazione che non è mai stata ideale, ma che durante il sessennio di López Obrador in Messico e di Trump/Biden negli Stati Uniti si è ulteriormente deteriorato. Un episodio in particolare ha segnato una svolta nelle relazioni. Nell’ottobre del 2020 il generale Salvador Cienfuegos Zepeda, ministro della difesa nella precedente amministrazione, fu arrestato dalla DEA negli Stati Uniti con 4 accuse legate al traffico di droga. Il Presidente López Obrador minacciò gli Stati Uniti di espellere tutti gli agenti della DEA dal territorio se non fosse stato consegnato alle autorità messicane. Cienfuegos fu rilasciato e, rientrato in Messico, non fu oggetto di alcuna investigazione. Il costo politico fu la rottura della già debole fiducia da entrambi le parti.
SEIDISERA del 18.08.2024 - Il servizio di Laura Daverio
RSI Info 18.08.2024, 22:41
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Nel caso degli arresti del luglio scorso, l’ambasciatore statunitense in Messico, Ken Salazar, ha confermato che nessuna persona impiegata dagli Stati Uniti è stata coinvolta nell’operazione, in linea con il rispetto della sovranità messicana. Ma è poco credibile che uno dei figli di El Chapo, anch’egli un boss, abbia deciso di consegnarsi alle autorità statunitensi e intraprendere la pericolosa operazione di catturare El Mayo senza previ accordi.
L’unica intervista rilasciata da “El Mayo” fu nel 2010 alla rivista messicana Proceso. Quando il giornalista Julio Scherer Garcia gli chiese cosa sarebbe successo in caso di cattura, Mayo rispose: “Quando i boss vengono catturati, uccisi o estradati, i loro sostituti sono già pronti”. La storia gli dà ragione, come ha dimostrato l’arresto del precedente boss “El Chapo”, la cui uscita di scena non ha fermato la parabola ascendente della sua organizzazione.
Le aspettative oggi sono altre e riguadano le informazioni, che in Messico molti vogliono conoscere e altri nascondere. I processi di figure del livello di “El Mayo” e Joaquín Guzmán López potrebbero infatti svelare nuovi dettagli sulle operazioni del crimine organizzato, e dei suoi legami con il mondo politico e le forze armate.