Il caso dell’undicenne interrogato dalla polizia vallesana perché sospettato di terrorismo, pone un quesito di fondo. Si può essere radicalizzati a quell’età? La RSI ne ha parlato con Chiara Sulmoni, esperta del centro di ricerca sugli estremismi di Lugano.
“Questo abbassamento sensibile dell’età di chi rimane impigliato nelle reti dell’estremismo è una tendenza che ormai sappiamo essere comune a tutta Europa già da qualche anno. E la Svizzera non fa eccezione. Recentemente si è saputo che nel Canton Vaud, dove è stato istituito nel 2018 un programma di prevenzione, il 40% dei casi trattati da questo dispositivo riguarda minorenni”.
Che l’adolescenza sia una fase fragile e ribelle della propria vita è da sempre così, ma oggi c’è la variante della tecnologia. “Poiché la radicalizzazione avviene non unicamente, ma in misura importante online, ecco che possono entrare piuttosto facilmente, rapidamente in contatto con ideologie violente sui social media e anche con altri giovanissimi all’estero che possono agire a loro volta da radicalizzati”. Importante, spiega l’esperta, “è però capire cosa si intende con radicalizzazione. È un percorso molto personale, non irreversibile. Non porta necessariamente al terrorismo e spesso su questo concordano tra l’altro, anche le intelligence di vari paesi. L’attrazione nei confronti della violenza precede l’adesione ideologica. È un discorso che vale soprattutto a undici anni. Bisogna quindi intervenire per tempo”.
Studi svizzeri passati, ma comunque recenti, mostravano che ci si radicalizza piuttosto dopo i vent’anni. Nel frattempo però qualcosa è cambiato, sottolinea Chiara Sulmoni: “Uno studio del 2019 indicava come, in base naturalmente alle informazioni disponibili, la radicalizzazione dei minorenni toccasse circa il 6%. Per l’epoca era un dato contenuto, ma oggi pare che la situazione sia anche più preoccupante rispetto ad altri paesi europei. Quello che è cambiato è il modo di produrre e consumare propaganda e la rapidità nel creare i contatti. Gli analisti fanno notare come oggi su Internet la produzione di propaganda e di narrativa estremista, ma anche l’incitamento all’azione, non sono più una prerogativa dei media legati ai movimenti terroristici, ma un’operazione a cui partecipa una larga base di adepti e militanti e anche giovanissimi”.
In che misura poi i giovanissimi passano all’atto è tema ancora da indagare. “Resta difficile capire - spiega Sulmoni - se un ragazzo entrerà in azione o meno. È un fenomeno che comunque preoccupa, deve preoccupare, visto che molti poi, come emerge dalle indagini, discutono anche di violenze da commettere. Nel mondo reale per ora non ci sono abbastanza dati. È un tema su cui i ricercatori dovranno dedicare molto più tempo”. Gran parte dei reati collegati al terrorismo, nota l’esperta, “fanno riferimento alla condivisione di propaganda. In Inghilterra è stata realizzata recentemente, credo, l’unica ricerca che tratti il tema in maniera sistematica e ampia. Questo studio non ha registrato casi di minori passati all’azione, ma li ritiene innovatori e amplificatori. Per ora ci sono molti fermi legati ad attentati sventati, forse in parte per l’incapacità organizzativa dei giovani, ma anche per la tempestività e il grande lavoro di intelligence”.
Se la radicalizzazione non è irreversibile, come si prendono a carico i giovani? “La prevenzione è un tassello importante, visto che si radicalizzano in un contesto virtuale al di fuori del controllo, molto spesso di genitori e docenti. Un cambiamento che è avvenuto soprattutto durante la pandemia, quando si trascorreva molto più tempo al computer. Bisogna stare attenti ai segnali, in particolare all’isolamento sociale che porta a cercare una socializzazione su internet. Bisogna poi ricordare che si tratta di estremismi in generale e quindi non soltanto di jihadismo. I giovani sono molto attivi anche all’interno delle comunità di estrema destra”.