La testimonianza

“Ho sempre avuto la sensazione di essere diversa”

Quando la diagnosi di un disturbo psichiatrico arriva a 30 anni

  • 6 aprile, 09:01
  • 6 aprile, 09:01
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Disturbo dell'attenzione, l'approfondimento

SEIDISERA 05.04.2024, 18:52

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Di: Sofia Stroppini 

Serena ha 31 anni quando riceve la diagnosi “ADHD”, ma lo è da quando è nata. Il dubbio le viene quando, guardando un video su TikTok di una ragazza ADHD - ovvero con un disturbo da deficit di attenzione/iperattività - si riconosce nelle sue parole.

“Ho proprio avuto una sensazione, un’illuminazione. Ho pensato “potrei essere io”. Ho iniziato a pensare che dietro questa diversità, che non sono mai riuscita a spiegarmi, ci potesse essere l’ADHD”, racconta ai microfoni della RSI.

Un ruolo importante quindi, quello dei social, confermato anche dallo psichiatra Michele Mattia, che afferma che sono in molti a rivolgersi a lui dopo aver visto dei video sul tema. Lo psichiatra ammette che da parte di alcuni operatori sanitari c’è ancora una difficoltà nel riconoscimento di questi disturbi, anche se sottolinea che ultimamente sempre più medici e psicoterapeuti si stanno interessando a quest’area, contribuendo allo sviluppo di una coscienza più diffusa. Invita inoltre a diffidare dalle autodiagnosi.

“È importante che la diagnosi venga fatta in modo attento e professionale, non con un test trovato su internet, ma con una valutazione neuropsicologica specifica”, spiega.

L’importanza della diagnosi

Infatti Internet è solo il punto di partenza per Serena, che poi si rivolge a chi di competenza e solo pochi mesi fa ottiene la diagnosi: “Si sente parlare di ADHD nei bambini, ma non molto negli adulti e quindi non avrei mai pensato di poter rientrare in questo tipo di disturbo.”

Così Serena prende consapevolezza di non essere sbagliata.

“È un modo diverso di funzionare, è una neurodivergenza. Vuol dire che tu così ci nasci, e una volta che lo riconosci, si può lavorare per imparare delle strategie per funzionare al meglio possibile.”

Lo specialista Michele Mattia aggiunge che la diagnosi è fondamentale per ottenere una cura: “La persona comprende che tutto ciò che ha vissuto, tutte le sofferenze, hanno un’origine e sono collegate a qualcosa che non è legato alla volontà... “È pigro, è svogliato, è smemorato, non riflette, non focalizza l’attenzione”... La mancanza di una spiegazione, fa sì che la persona si senta sempre più esclusa, e questo crea una dimensione di profonda sofferenza interiore, che poi può portare a stati d’ansia e a stati depressivi, ma anche a disturbi della sfera della personalità. La diagnosi permette di entrare in contatto con un mondo che, finalmente, ci spiega tante cose”.

Serena racconta che ora il fatto di bloccarsi davanti a determinate attività ha un nome, e cioè “paralisi nelle funzioni esecutive”, e non è più riconducibile alla pigrizia. La semplice azione di piegare i panni può portare a uno stato d’ansia. Sa che deve farlo, ma è completamente bloccata.

“Da fuori, è come vedere una persona assolutamente pigra, che non ha voglia di farlo e non lo fa, invece fa stare male. Magari resti ore sul divano, con la costante sensazione di dover svolgere quel compito, ma senza riuscire a farlo”.

Tra frustrazione e sollievo

La diagnosi è arrivata tardi, ma per Serena, così come per altri pazienti, è stata un sollievo. “Passi tutta la vita a sentirti diverso” -spiega- “e in qualche modo anche le altre persone ti vedono così e finisci per credere di essere terribilmente sbagliato. La diagnosi ti permette di capire che un funzionamento diverso non significa che sia peggiore. Scopri inoltre che ci sono persone nella stessa condizione, con cui potersi confrontare.”

“Io ne parlo liberamente. Non è qualcosa da nascondere, anzi, più lo si conosce, meglio è. È una diversità, non è niente di male. Ne parlo anche con il mio compagno: per me è importante fargli capire che dietro alcuni atteggiamenti che potrebbero infastidirlo, c’è l’ADHD. Gli mostro anche che da parte mia c’è la voglia di trovare delle soluzioni. Parlarne è importante sia nel rispetto della persona ADHD, sia nel rispetto di chi le sta intorno”.

Ci si può chiedere se il paziente, tra le emozioni provate al momento della diagnosi, non senta anche la frustrazione di aver passato tanti anni nell’incomprensione. Lo psichiatra Michele Mattia specifica che questo sentimento si può presentare in una persona che è già stata in cura dal punto di vista medico, psichiatrico o psicoterapeutico, senza che ci si sia mai soffermati su questa possibile area diagnostica: “In quel caso sì, c’è una frustrazione di anni perduti, laddove non si è mai intrapresa una cura. Può emergere in modo maggiore, proprio perché si tratta di una dimensione di perdita di tempo prezioso.”

Per chi sentisse il bisogno di rivolgersi a qualcuno di competente, nella Svizzera italiana sono attive l’associazione ADAT (www.associazioneadat.com) e la società ADHD-Ticino (essendo stata appena costituita, per il momento non dispone di un riferimento specifico; perciò, si può scrivere all’indirizzo dello studio del Presidente Michele Mattia: studiomattia@michelemattia.ch). Ci si può anche recare ai Centri dell’EOC: l’Ambulatorio di Neuropsicologia dell’Ospedale Regionale di Lugano e il Servizio di Neuropediatria di Bellinzona (A Viganello si trova un ambulatorio preposto alle consulenze dei disturbi dello sviluppo in fase adulta).

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