Al di là delle roboanti dichiarazioni della vigilia del Premier di casa, Boris Johnson, nessuno riponeva grandi aspettative sulla COP26. Non solo per le tensioni geopolitiche che l’avevano preceduta, a cominciare dalle relazioni incrinate tra Stati Uniti e Cina, i due principali inquinatori del pianeta, responsabili assieme del 43% delle emissioni globali. Dopo l’Accordo di Parigi è sfumato quel senso d’urgenza, reclamato dall’emergenza climatica. La pandemia, con la crisi economica che ne è scaturita, ha riordinato le priorità nazionali, finiti inevitabilmente per collidere con le necessità internazionali.
Se la prima settimana di Glasgow è stata un susseguirsi di annunci ambiziosi e promesse incoraggianti, la seconda ha evidenziato le difficoltà di tradurre in azioni concrete le intenzioni della politica. Alcuni risultati – più o meno largamente condivisi tra i 197 paesi partecipanti alla conferenza sul clima - sono stati raggiunti. Dall’impegno a fermare la deforestazione entro il 2030, all’obiettivo di riduzione delle emissioni di metano, dall’uscita dal carbone (per la prima volta presente in un documento di simile portata) fino ai finanziamenti non solo per la mitigazione ma anche l’adattamento climatico.
Misure insufficienti - secondo numerose associazioni ambientali, e non solo - per mantenere il limite del surriscaldamento ad 1,5 °C, il valore massimo di sopportazione per la terra. Una minaccia condivisa da tutti i Paesi, che però continuano a dividersi sui tempi e modi per raggiungere questo traguardo irrinunciabile. Da qui la frenata scozzese, che non ha saputo offrire impegni vincolanti per indirizzare la crisi climatica verso una soluzione definitiva. Ma se le speranze del mondo si sono già mosse verso Sharm el-Sheikh, sede della prossima COP, è giusto ricordare come l’impegno contro il surriscaldamento terrestre, esattamente come lo stesso innalzamento delle temperature, è un processo. Lungo, complesso e tortuoso, che non contempla singoli summit salvifici.