“Come tutti gli uruguagi, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo; durante il giorno ero il peggiore scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese”. Eduardo Galeano è solo uno dei tanti scrittori che hanno ammesso, sfidando gli sguardi accigliati, disgustati e torvi dei poeti laureati e degli accademici seriosi, una smodata e inguaribile passione per il calcio. Evgenij Evtušenko raccontava di essersi recato, completamente ubriaco di vodka, a un provino per la Dinamo Mosca. Siccome già scriveva dei versi, lo invitarono a dedicarsi alla poesia in via esclusiva e definitiva. Altrettanto sincero fu Vasco Pratolini: “Nelle mie domeniche, salto la messa, mai la partita. E onestamente parlando, oggi come oggi, non so cosa possa accadere di più importante nel resto del mondo, in quelle ore della domenica, di quanto non accada negli stadi, e che meriti di essere veduto, e vissuto”. Ma solo uno, beffandosi di una società intellettuale che condanna la passione per il calcio in nome di una presunta e mai dimostrata inferiorità spirituale rispetto al balletto classico, alla musica dodecafonica e alle sfilate di moda, ha avuto la faccia tosta di ammettere che quel poco che sa della morale lo ha appreso sui campi di calcio, la sua vera università. Questo temerario è stato Albert Camus, Nobel per la letteratura nel 1957. La notizia della vittoria del premio lo raggiunge in uno stadio, al Parco dei Principi, mentre assiste a Racing Paris-Monaco. Un giornalista della televisione francese gli chiede di commentare una papera del portiere parigino. “Non diamogli addosso”, è la risposta: “È quando sei in mezzo al campo che capisci quanto sia difficile”. Camus sa di cosa parla: da ragazzino, in Algeria, giocava in porta perché, avendo solo un paio di scarpe, le avrebbe consumate di meno. Venendo da una famiglia povera, non poteva concedersi il lusso di correre nei campi: ogni sera la nonna gli ispezionava le suole e, se le avesse trovate danneggiate, lo avrebbe picchiiato. Quei pomeriggi passati a respingere palloni come, più avanti, le insidie della vita, gli hanno insegnato che i colpi più pericolosi non arrivano mai da dove ci si aspetta. Memore di questa esperienza, con i soldi del Nobel acquisterà una tenuta a Lourmarin, nel Lubéron, dove trascorrerà le domeniche guardando i ragazzi della squadra locale allenarsi o giocare contro i villaggi vicini, arrivando persino a sponsorizzarli e a pagare loro le maglie. Come per i personaggi dei suoi romanzi, che vivono il nichilismo, la contraddizione, la violenza e la vertigine della distruzione, l’assurdità della condizione umana, per Camus lo stadio è l’unico posto in cui sentirsi innocente. E così può ripensare agli amici d’infanzia, alle partite per strada, alla povertà che gli appariva naturale e ovvia come l’aria stessa di questo mondo, a tutto quello che ha perso e che si illude di ritrovare quando una rete si gonfia e i ragazzi esultano. Non è la stessa cosa ed è sempre più difficile, ma può bastare per riempire il cuore di un uomo che è stato bambino. Bisogna immaginare Sisifo felice.
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