Vladimir Dimitrijević
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Vladimir Dimitrijević, editore calciofilo

di Valerio Rosa

  • ©Erling Mandelmann / foto©ErlingMandelmann.ch
  • 3.12.2022
  • 4 min
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  • Letteratura

“Il calciatore vero lo si riconosce immediatamente, non lo si può inventare né simulare; il suo è un qualcosa di innato, un dono, un tocco inimitabile, l’arte di stoppare la palla; una cosa che non si impara. È esattamente come chi possiede uno stile letterario, perché a mio avviso c’è una correlazione tra questo sport e la letteratura. Il modo in cui uno scrittore colloca una virgola o un aggettivo, il modo in cui percepisce la propria musica, il respiro della frase, tutto ciò si ritrova in questo magico gioco”. Due arti, quella letteraria e quella pedatoria, che si sono sempre incontrate nella vita di Vladimir Dimitrijević, editore di successo e ala destra mancata, sin da quando, fuggito in Svizzera a vent’anni, nel 1954, dalla Jugoslavia comunista, operaio in nero in una fabbrica di orologi a Grenchen, nel canton Soletta, ottenne un regolare permesso di lavoro e di soggiorno grazie alle sue abilità calcistiche. In seguito, trasferitosi a Losanna, avrebbe fondato le Éditions L’Âge d’Homme, pubblicando per primo capolavori come “Vita e destino” di Vasilij Grossman, senza abbandonare le sue due grandi passioni, anzi facendole dialogare; era infatti capace di interrogarsi per ore su come lo scrittore Miloš Crnjanski avrebbe passato la palla all’attaccante svedese Gunnar Nordahl, se avessero giocato nella stessa squadra alle Olimpiadi di Londra del 1948. Sfogliando “La vita è un pallone rotondo”, il testamento spirituale di Dimitrijević, il suo breviario di uomo e di editore, calcio e letteratura si incontrano e si confondono ad ogni pagina. Come nel caso di Czibor, il “passerotto pazzo” dell’Ungheria di Puskàs: un’altra ala destra, che è il ruolo degli eccentrici e degli anticonformisti. Czibor aveva il volto dello scrittore che avrebbe potuto lasciare un’opera importante, ma preferisce tirar tardi nei caffè, perché lì fa più caldo, gli piace stare appoggiato al bancone a chiacchierare, per poi magari, all’improvviso, lasciarsi sfuggire un’enormità che gli costerà il carcere. Czibor come Hemingway, Dos Passos, Fitzgerald, che possono consolarci quando nutriamo dubbi sulla natura umana, adepti della religione del tirare tardi e aspettare il mattino, e soprattutto come Thomas Wolfe, che racconta la storia di uno scultore che prova a incidere nella pietra il sorriso di un angelo, in un mondo fatto per i vagabondi e pieno di cose da fare, di promesse e di solitudini. Il calcio per Dimitrijević è un mito, che non può fare a meno di quei tifosi che vivono per la loro squadra e a volte si conciano in modo bizzarro, ricoprendosi di distintivi, gagliardetti e bandiere, dando anche una vaga impressione di squilibrio: sono i depositari della tradizione orale, degli apocrifi e delle interpretazioni che segnano il passaggio dai primi abbozzi dei poemi omerici alle versioni definitive dell’Iliade e dell’Odissea. Non sono diversi da quelli che amano la letteratura senza riserve, perché ne ricevono ciò che essa deve dare, la sua essenza, l’interesse e il complemento della vita. Come i tifosi, ammirando le prodezze dei campioni, vorrebbero imitarle, così i lettori, alle prese con un grande libro, sognano di coglierne il mistero: e lo rileggono. Tifosi e lettori custodiscono dunque il senso del sacro, come il passeggero di un autobus che sta leggendo e all’improvviso si accorge di aver saltato la sua fermata, perché aveva la testa da un’altra parte. Dimitrijević, che da bambino prendeva a calci qualsiasi cosa rotolasse e provava un’emozione incontenibile davanti a un vero pallone, individua assonanze anche nella corruzione della modernità, dominata dal calcisticamente corretto, dalla paura di sbagliare: un insulto alla vita, che ama l’espansione, il movimento, gli attimi in cui il cuore si entusiasma. Frenare, trattenersi è un’acquisizione della civiltà, un riflesso condizionato: si eliminano i rischi, si neutralizza e si paralizza tutto, si perde il piacere del gesto inatteso, irridente e fuori dagli schemi. Eppure, benché queste arti siano diventate merci, il mistero del calcio e della letteratura continua a rinnovarsi e le ore passate allo stadio o su un libro sono sempre, per fortuna, ore diverse dalle altre.

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