“Suona con gentilezza” di Sidney Bechet, Quodlibet (dettaglio di copertina)
La Recensione

“Suona con gentilezza”

La storia di Sidney Bechet

  • quodlibet.it
  • 6.6.2024
  • 24 min
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  • Letteratura
  • Musica
Di: Franco Fabbri

Un bel libro, capace di interessare sia gli appassionati di jazz che vogliono sapere di più a proposito di uno dei loro campioni, sia chi del jazz e della sua storia non sa nulla o quasi, e vuole trovarsi immerso nel vivo dell’intreccio di luoghi e persone che hanno dato vita a quella musica e ai suoi discorsi. Introdotto ottimamente da due saggi di Claudio Sessa e di Marcello Lorrai e da una nota tecnica del sassofonista jazz Roberto Ottaviano, il libro si inserisce in una collana dell’editore Quodlibet dove compaiono altri volumi pubblicati per la prima volta in italiano, ma usciti sul mercato angloamericano molti anni fa. Questa autobiografia fu dettata da Bechet nel 1958, un anno prima della morte, e il suo interesse risiede anche nel fatto che non fu troppo rielaborata né dalla redattrice, Joan Reid, che registrò la maggior parte del materiale, né dal curatore della prima edizione, Desmond Flower, che rendendosi conto di alcune lacune andò a Parigi per interpellare nuovamente Bechet. Così il racconto è vivo, con qualche ripetizione, come si addice al mezzo dell’intervista e forse all’anzianità dell’intervistato, ma brillante, ricchissimo di dettagli e di annotazioni profonde sulla musica. Come chiariscono i prefatori, il primo lungo capitolo, dedicato alla vicenda del nonno di Bechet, uno schiavo nero, è palesemente un falso: se lo si legge con attenzione ci si domanda come e da chi Sidney possa essere stato informato delle peripezie di un nonno, morto prima che una giovane schiava si accorgesse di essere rimasta incinta del mitico Omar, per dare poi alla luce il padre di Sidney. Ma si capisce benissimo quanto a Bechet, nel 1958, servisse ricostruire le sue origini, nella Louisiana dell’Ottocento.
Il racconto è affollato di personaggi, fin dall’infanzia di Bechet, giovane clarinettista prodigio. Nei discorsi sul jazz è imprescindibile nominare tutti i membri delle formazioni in cui i musicisti di cui si parla hanno suonato: un po’ per l’importanza dell’interazione collettiva in questa musica (il famoso interplay), un po’ perché si usa così, e se non lo si fa si passa per incompetenti. Ma Bechet parla molto anche della musica, e la chiama quasi sempre ragtime, non jazz: e gli storici concordano sul fatto che il primo jazz fosse sostanzialmente ragtime orchestrale, e che “jazz”, qualunque cosa volesse dire, fu forse una trovata pubblicitaria. Bechet, dopo essere stato un apprezzatissimo clarinettista, scoprì in un negozio di Londra un sax soprano, e fu probabilmente il primo solista del sassofono jazz, e uno dei primi solisti jazz in assoluto. È sufficiente per prendere questo libro molto sul serio.

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