Di recente le cronache musicali di mezzo mondo hanno molto parlato e discusso del nuovo album di Beyoncé che, come già il titolo (Cowboy Carter) dichiara, si propone come un omaggio alla country music. L’album di Beyoncé è in realtà la punta dell’iceberg. In questo senso “omaggio” non è il termine giusto. Diciamo piuttosto che, grazie alla sua enorme popolarità, Beyoncé ha fornito un contributo forse decisivo (anche se piuttosto blando, in fin dei conti), dando finalmente visibilità al lavoro, o forse si potrebbe dire battaglia, che da decenni viene condotta da autrici e musiciste afroamericane proprio in relazione al country.
In sostanza si tratta di ridefinire la genealogia della country music, quel genere che è da sempre il vessillo dell’America profonda, musica tipicamente, gelosamente, bianca, in contrapposizione a quella musica afroamericana che invece ha conquistato il mondo. Da decenni musicisti e, soprattutto, musiciste afroamericane vanno riscoprendo le radici autentiche di questa musica, ne riscrivono la storia, mostrando come essa, nel corso dei secoli, si sia formata ed evoluta anche grazie al contributo fondamentale degli afroamericani.
Alice Randall, scrittrice afroamericana e docente alla Vanderbilt University (Nashville), da quarant’anni a questa parte ha scritto qualcosa come 200 testi di canzoni che hanno spesso conquistato le prime posizioni o addirittura la vetta delle classifiche country. Nel mese scorso è uscito un suo libro: My Black Country: A Journey Through Country Music’s Black Past, Present, and Future. E, insieme ad esso, quasi omonimo, My Black Country. The Songs of Alice Randall, uno straordinario album-tributo, una rilettura folgorante di 11 canzoni portate al successo, in passato, da artiste bianche e che, nelle mani di 11 grandi interpreti afroamericane, subiscono una metamorfosi rivelatrice.