Ho scoperto Zio Vanja a Parigi, il dialogo tra la giovane Sonja e l’affascinante matrigna Elena è uno di quelli che mi rimarrano sempre impressi nella memoria, probabilmente anche perché uno dei primi ad essere provato nel mio percorso formativo lì. Sonja ha le guance che bruciano, una tempesta è appena passata lasciando nella casa quel clima elettrico che è solito farle da coda. Astrov, il dottore, è partito e lei sogna in grande, restando piccola. Sentiamo sin da subito che questa pièce di Čechov è intrisa più di ogni altra di quel rimpianto caratteristico del regista russo, ma anche di apatia e di grande disincanto. Del resto Astrov, medico di campagna amico di Vanja, non può non ricordarci lo stesso cinico e disilluso drammaturgo. Tornando alla scena, le due donne stanno sedute su un divano e ci ricordano due facce dell’irrealizzazione: una, Sonja, giovane goffa e impacciata, vive nella disillusione di un amore impossibile, quello per Astrov, mentre Elena, la bella matrigna ventisettenne sposata con il ricco e anziano Professor Serebrjiakov, nel rimpianto di aver commesso la scelta sbagliata. Dal ricco e ipocondriaco professore non ha nemmeno il permesso di suonare il piano. Entrambe non vivranno la realizzazione dei propri sogni, una perché vittima del destino, l’altra della propria inerzia.
Andato in scena al Teatro d’arte di Mosca nel 1899 Zio Vanja è considerato uno dei suoi drammi più importanti e rappresenta una realtà famigliare intrisa di odio e di rancori inespressi. Scritto qualche anno prima è tra i responsabili nell’alzare il sipario sul secolo successivo. Non parliamo della data, ma del paradigmatico cambio di linguaggi e finalità dell’arte della rappresentazione.
Innanzitutto, a sottolineare il meccanismo d’inerzia e l’inesorabilità cui è intriso il testo, non accade nulla. I cinici personaggi sono statici, rassegnati e colmi di desideri che non potranno mai più realizzare. L’ingombrante presenza del professore sembra gravare sui personaggi come un’opprimente ombra di insoddisfazione. A proposito del suo teatro Čechov diceva:
“Il pubblico vuole che ci siano l’eroe, l’eroina, grandi effetti scenici. Ma nella vita ben raramente ci si spara, ci si impicca, si fanno dichiarazioni d’amore. E ben raramente si dicono cose intelligenti. per lo più si mangia, si beve, si bighellona, si dicono sciocchezze. ecco che cosa bisogna far vedere in scena”.
Queste parole rispecchiano perfettamente Zio Vanja, dove i personaggi vivono in una gabbia di noia dalla quale non tentano nemmeno di scappare. Vorrebbero fare qualcosa per reagire alla propria insoddisfazione, e sembrano a volte riuscirci, ma poi, come nei peggiori giochi da tavola, ritornano sempre al punto di partenza. Nulla è destinato a cambiare.
La trama è semplice: Zio Vanja (Ivan Vojnickij) e la nipote Sonja mandano avanti da anni una tenuta agricola immersa nella campagna. A turbare la loro quiete è l’arrivo del Professor Serebrjiakov che da poco ha sposato la giovane Elena Andreevna. Vanja disprezza profondamente il Professore, suo cognato di prime nozze, poiché mentre questi si dedicava all’attività accademica a lui era toccato sostenerlo economicamente lavorando nell’azienda. Inoltre è molto risentito dalla scelta di Elena, cui non manca di rimarcare il suo amore. Anche Astrov, come Čechov medico di campagna ed ecologista ante litteram, giunge alla tenuta per prendersi cura di Serebrjiakov, e anche lui non manca di mostrare il suo interesse per Elena. Quando il vecchio Professore annuncia alla famiglia che ha deciso di vendere l’azienda e coi soldi guadagnati affittare una villa in Finlandia per lui e sua moglie Vanja monta su tutte le furie. Gli rinfaccerà di essere stato costretto a rinunciare alla propria giovinezza per lui, che ora lo getta in mezzo a una strada dopo tutti i sacrifici. Vanja l’inetto compie una serie di azioni fallimentari, atti mancati, Elena torna di corsa in città e Sonja, forse la più consapevole, lo consola.
“Zio Vanja, vivremo. Vivremo una lunga, lunga fila di giorni, di lente serate: sopporteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà; (…) e quando arriverà anche per noi la nostra ora, moriremo umilmente, e di là, oltre la tomba, diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che la sorte è stata amara per noi, e dio avrà pietà di noi, e io e te zio, caro zio, vedremo una vita luminosa, bella, incantevole, conosceremo la gioia, e guarderemo alle nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso … e riposeremo!”
All’amarezza delle illusioni (di Sonja, di Elena, di Vanja e Astrov) si accompagna una riflessione di fondo sul senso della vita degli individui e sulle trasformazioni sociali (e anche sul rapporto fra uomo e natura).
La pièce di Čechov è un incredibile capolavoro che nonostante l’età riesce ad essere estremamente attuale. Dipinge la società attraverso questo terribile ritratto di famiglia, dove mancano sempre il coraggio, la voglia e la scaltrezza per cambiare la propria condizione – umana, sociale - dove è più facile cadere nella perdizione che agire per davvero, incolpando il destino e crogiolandosi nelle proprie lamentele. Alla fine i personaggi non hanno nemmeno la forza di arrabbiarsi, accettando con quasi serena rassegnazione gli anni che li attendono.
Leonardo Lidi: ricomincio dal testo
Laser 18.01.2021, 09:00
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