Cultura

Una statuetta di nome Oscar

Questa notte, a Los Angeles, si celebrerà l’evento più importante legato al mondo del cinema, nato da un’esclusione e divenuto iconico

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Di: Nicola Lucchi 

È difficile che l’annuncio dei candidati agli Oscar susciti sorprese rilevanti. Malgrado questo, ogni cinefilo attende il giorno del comunicato con un certo interesse, forse più desideroso di confermare i propri pronostici che non di scriverne sull’ennesima rivista. In fondo si tratta per lo più di titoli di cui si è parlato a lungo, spesso con una profusione di elogi e uno spargimento cospicuo di benedizioni a favore. Dopo le difficoltà dovute agli incendi e i conseguenti rinvii, anche quest’anno si è arrivati così ai nomi tanto attesi. Anche quest’anno, non troppe sorprese. Con le sue tredici nomination, Emilia Perez batte il record di candidature per un film non in inglese, Vermiglio non entra nella short list, The Brutalist se ne piglia dieci e The Substance tornerà a far parlare di sé. Una cerimonia che, per quanto troppo spesso scontata, resta la più importante manifestazione cinematografica al mondo, una miniera d’oro per i film vincitori e la più grande vetrina per attori e produzioni. E pensare che tutto iniziò con una modesta cerimonia da 270 invitati voluta da un produttore messo all’angolo.

Nel 1922 l’industria di Hollywood arruolò il bigotto conservatore William Hays al fine di ripulire il mondo del cinema, e di conseguenza i film, da scandali e contenuti inappropriati. Hays fu messo a capo della Motion Picture Producers and Distributors of America (MPPDA), un’associazione volta all’autocensura che avrebbe fatto di tutto per uccidere la fantasia e la libertà di registi e sceneggiatori, ma di cui facevano parte i vertici dell’industria stessa: Samuel Goldwyn, Adolph Zukor, William Fox, Marcus Loew e Carl Laemmle. Alla lista mancava però un nome che avrebbe presto segnato la storia di Hollywood, imponendosi per anni come il più grande produttore americano. Dov’era Louis B. Mayer mentre i suoi rivali organizzavano a tavolino il futuro del cinema? Non si trovava molto lontano da loro, ma semplicemente era stato tagliato fuori dall’associazione perché, malgrado avesse una propria produzione, non era ancora abbastanza influente.

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Louis B. Mayer

Privo di potere ma con una chiara visione del futuro, Mayer tracciò così le coordinate di un percorso del quale la MGM sarebbe stata la stella polare. Avrebbe arruolato i migliori registi, gli sceneggiatori più talentuosi e le star più ambite, creandone necessariamente di nuove. Allo stesso modo, avrebbe dato vita a un’associazione in grado di nobilitare i suoi film e le star che li interpretavano. Parlò per la prima volta di questa idea nella sua casa di Santa Monica, in una cena privata svoltasi nel dicembre del 1926 in compagnia dell’attore Conrad Nagel, del regista Fred Niblo e del produttore Fred Beetson. Solo un mese più tardi, l’11 gennaio del 1927, Mayer organizzò una nuova cena all’Ambassador Hotel, dove furono invitate 36 figure di spicco dell’industria. L’associazione prese il nome di Academy of Motion Picture Arts and Sciences, e alle redini del gruppo, che presto avrebbe superato i 200 iscritti, fu posto l’attore Douglas Fairbanks.

L’idea concreta di istituire un premio annuale fu formulata il 4 maggio dello stesso anno, durante un sontuoso banchetto svoltosi al Biltmore. Quel che mancava, a questo punto, era solo la famosa statuetta, che l’art director Cedric Gibbons disegnò senza immaginare che, lungo la sua carriera, ne avrebbe vinte undici. Nello schizzo di Gibbons, la statuetta prevedeva un cavaliere intento a trafiggere una bobina con una spada. L’interpretazione era fraintendibile. Uccidere il cinema? No, proteggerlo per il bene dell’industria. Lo scultore George Stanley realizzò varie versioni dell’oggetto e quella finale, scelta in accordo con Gibbons, portò la bobina sotto i piedi del cavaliere. Dettagliate le fasi della sua realizzazione, meno chiare le origini del suo nome. Le ipotesi sono numerose, ma la più gettonata vede la direttrice esecutiva dell’Academy, Margaret Herrick, osservare quell’ometto dorato ed esclamare: “assomiglia a mio zio Oscar.” Bette Davis avrebbe successivamente reclamato la paternità di quel nome attraverso un espediente analogo nel quale era però coinvolto il marito Harmon Nelson, che di secondo nome faceva per l’appunto Oscar. Un nome che, pare, fu pubblicato per la prima volta dal Los Angeles Evening Post-Record il 5 dicembre 1933.

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Primo banchetto, 16 maggio 1929, Roosevelt Hotel

La prima cerimonia fu celebrata all’Hollywood Roosevelt Hotel il 16 maggio del 1929, il prezzo d’ingresso era di 5 dollari e le statuette assegnate furono 15. A differenza delle attuali modalità di premiazione, che prevedono buste ben sigillate e il segreto assoluto, i vincitori furono annunciati in largo anticipo. Non fu l’unica regola a cambiare. Come un organismo in perpetuo mutamento, nel corso degli anni l’organizzazione riformulò spesso le proprie norme, dalle modalità di voto al numero di categorie, dalla quantità delle possibili candidature al luogo stesso della manifestazione che, dal 2002, si svolge al Dolby Theatre. Tra le normative, qualcosa che riguarda proprio la statuetta, che dal 1950, pur restando proprietà esclusiva del vincitore, non può più essere venduta. Il ritiro prevede infatti l’accettazione di un contratto che obbliga il vincitore a restituirla all’Academy per la cifra di un dollaro, qualora volesse liberarsene. Un prezzo piuttosto vantaggioso se si considera che, prima che questa regola esistesse, Michael Jackson comprò l’Oscar vinto da Via col vento (1939) per 1.5 milioni di dollari e che Beatrice Welles si sbarazzò dell’Oscar vinto dal padre con Quarto potere (1940) per 862 mila dollari.

Ora che la cerimonia è giunta alla sua novantasettesima edizione, non resta che mettersi in poltrona nella speranza di qualche sorpresa, guardare quelle statuette da un dollaro passare da una star all’altra, e ricordarci che da un limite può sempre nascere un’opportunità.

03:28

Oscar come simbolo di chi nel cinema ce la fa

Millevoci 28.02.2025, 10:05

  • Imago Images
  • Francesca Margiotta e Marcello Fusetti

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