Fino all’11 maggio al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato è allestita la mostra Peter Hujar. Azioni e ritratti / viaggi in Italia, comprendente un’ampia selezione di scatti realizzati tra gli anni Sessanta e Settanta.
Osservando una dopo l’altra le tante fotografie - tutte rigorosamente in bianco e nero e dal formato quadrato - che compongono l’archivio di Peter Hujar, ciò che colpisce è il loro carattere malinconico: ritratti e paesaggi sono spesso ammantati di un’aria mesta. È una malinconia accompagnata da un senso di vulnerabilità: sarà per le pose pacate dei soggetti, che appaiono spesso seduti o placidamente distesi, oppure per la nudità ricorrente. È un susseguirsi di sguardi pensierosi o ammiccanti, di corpi che si mostrano senza pudore, di gesti talvolta teatrali, altre volte naturalissimi, di amici e amanti con cui si instaura una silenziosa complicità. C’è William Burroughs, imperturbabile, semisdraiato e con la testa appoggiata sulla mano; c’è Iggy Pop che pare un angelo dormiente, un’immagine che contrasta con la sua indole rock; e ancora, lo scrittore e critico Gary Indiana con il capo fasciato da un velo decorato di strass; John Cage e Merce Cunningham seduti composti uno accanto all’altro; e poi Susan Sontag, sdraiata supina con le mani sotto la nuca, assorta nei suoi pensieri.

Homage to Lilo Raymond (Naples Fish), 1978
Fu proprio la scrittrice e critica statunitense, legata a Peter Hujar da una sincera amicizia, a firmare la prefazione a Portraits in Life and Death, l’unico libro che il fotografo pubblicò mentre era in vita. Uscito nel 1976 e considerato oggi un libro di culto, è uno splendido e raro compendio fotografico dell’avanguardia newyorkese degli anni Settanta, un volume che combina vitalità e decadenza in modo straordinario: da una parte quarantuno ritratti di personalità, artisti e intellettuali realizzati tra il 1974 e il 1975, dall’altra parte, a mo’ di inatteso e macabro contrappunto, le salme imbalsamate all’interno delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo che Hujar fotografò nel 1963, durante un viaggio in Italia con l’amico artista Paul Thek. «La fotografia converte il mondo intero in un cimitero. I fotografi, intenditori della bellezza, sono anche, consapevolmente o inconsapevolmente, gli angeli della morte. [In] questa selezione di lavori di Peter Hujar, amici e conoscenti […] sembrano meditare sulla propria mortalità. […] Le fotografie di Palermo, che precedono questi ritratti nel tempo, li completano, li commentano. Peter Hujar sa che i ritratti in vita sono sempre, anche, ritratti in morte» leggiamo nella prefazione al libro.
Come i frati del convento imbalsamavano i cadaveri per preservare i corpi dalla decomposizione, così Peter Hujar con le sue immagini ha cercato di perpetuare la memoria dei suoi amici e di coloro che, apportando energie creative, sperimentazione e anticonformismo, animavano l’East Village. Hujar era senz’altro un “intenditore della bellezza”, ma ciò che cercava e restituiva nelle sue immagini era una bellezza fragile, fuggevole e corrosa. Che si tratti di volti e corpi, delle onde del fiume Hudson, dei moli abbandonati di New York o di desolati paesaggi rurali, dai suoi lavori traspare sempre la consapevolezza del legame inestricabile tra vita e morte.
«Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o cosa)» scriveva Sontag nel suo saggio Sulla fotografia (1977), proprio negli anni in cui Hujar immortalava artisti, scrittori, drag queen e performer catturandone le anime. Emblematica in tal senso è l’immagine Candy Darling on her Deathbed (1973), che ritrae l’attrice transgender, star della Factory di Andy Warhol. Perfettamente truccata, Darling è sdraiata su un letto di ospedale, il pallore del suo viso riecheggia il candore delle lenzuola e dei fiori bianchi alle sue spalle. Un senso di quiete e insieme di inquietudine permea la foto. L’attrice, che era in cura per un linfoma e sarebbe morta appena un anno dopo, chiese esplicitamente a Hujar di fotografarla su quel letto d’ospedale, come a voler fermare quell’ultimo istante di bellezza e armonia prima di appassire del tutto. Questa straordinaria immagine comparirà alcuni decenni più tardi, nel 2005, sulla cover di I Am a Bird Now, secondo album del gruppo musicale Antony and the Johnsons (poi divenuti Anohni and the Johnsons). Non è l’unico scatto di Hujar a essere finito su una copertina: ce n’è un altro, forse ancora più emblematico e significativo, che campeggia su un libro divenuto un bestseller in tempi recenti, soprattutto tra le giovani generazioni. Si tratta del romanzo A Little Life (pubblicato in Italia da Sellerio con il titolo Una vita come tante) della scrittrice Hanya Yanagihara. «Mi piaceva l’intimità, l’emozione, quella che sembra angoscia. C’è qualcosa di così viscerale» ha dichiarato l’autrice a proposito della foto prescelta: un volto maschile contratto, che pare in bilico tra estasi e dolore, e che ben riflette il groviglio di amore e ferocia del romanzo. Certamente Peter Hujar non avrebbe mai potuto immaginare che il suo Orgasmic Man, ritratto nel 1969, avrebbe raggiunto le librerie di mezzo mondo, diventando persino virale sui social. Un paradossale scherzo del destino se pensiamo che il fotografo morì indigente, a 53 anni nel 1987, per complicazioni correlate all’AIDS, malattia che tolse la vita anche a tanti degli amici e delle persone che fotografò.

Larry Ree Backstage
Oggi, per la pregnanza e peculiarità del suo lavoro, Peter Hujar è spesso accostato a Diane Arbus e Robert Mapplethorpe, c’è chi lo considera addirittura il “Nadar di Downtown New York”, mentre Nan Goldin ha rivelato in un’intervista che non avrebbe mai intrapreso la strada della fotografia se non fosse stato per lui. Eppure in vita Hujar non ebbe il successo che si meritava, o forse è più corretto dire che non lo volle: i galleristi non gli andavano a genio («Ha attaccato il telefono in faccia ai più importanti mercanti d’arte in circolazione» disse la scrittrice Fran Lebowitz in occasione del funerale di Hujar, sottolineando il suo rifiuto verso qualsiasi logica commerciale). E sebbene amasse la fotografia perché gli permetteva di entrare in contatto con gli altri, Hujar aveva un carattere complesso ed era tormentato da molti fantasmi. Lo scrittore Stephen Koch, suo esecutore testamentario e curatore del suo archivio, ha dichiarato: «Peter era probabilmente la persona più sola che abbia mai incontrato. Viveva in isolamento, ma era un isolamento molto affollato. Intorno a lui c’era un cerchio che nessuno attraversava».

Gary Indiana Veiled, 1981
Peter Hujar era nato a Trenton, New Jersey, nel 1934. La sua infanzia venne segnata, purtroppo, da abbandoni e abusi. Sua madre faceva la cameriera presso una tavola calda, mentre il padre era un piccolo contrabbandiere che se la svignò quando lei era incinta. Piccolissimo, venne affidato ai nonni che abitavano in una fattoria nel New Jersey. Dopo la loro morte, Hujar tornò a vivere con la madre alcolizzata e il compagno di lei, in un misero appartamento di Manhattan, ma la tribolata convivenza non durò a lungo. A sedici anni, dopo un furioso litigio che culminò con una bottiglia di gin scagliatagli addosso, il giovane Hujar andò via di casa senza farvi più ritorno.
Il suo interesse per la fotografia era nato provando la fotocamera della madre ed era maturato alla School of Industrial Art. Dopo le scuole superiori, Hujar iniziò a farsi le ossa lavorando nel settore della fotografia commerciale ed ebbe anche l’opportunità di frequentare un workshop con Marvin Israel, art director di Harper’s Bazaar, e Richard Avedon, un’esperienza importante nella sua formazione. Intorno alla fine degli anni Sessanta, Hujar riuscì ad aprire un proprio studio: fu il primo passo verso l’abbandono della fotografia pubblicitaria a favore di un percorso più personale, autonomo e libero da qualsiasi vincolo o imposizione. Una svolta che coincise con la sempre più assidua frequentazione di Hujar degli ambienti underground e del milieu artistico della città. New York in quegli anni traboccava di fermenti creativi, di tendenze e forme espressive inedite e sovversive: basti pensare alla Factory di Warhol, che tra l’altro immortalò Hujar in uno dei suoi Screen Tests e nel film Thirteen Most Beautiful Boys, insieme a Paul Thek, o alle diverse compagnie che esploravano nuove vie e approcci nel campo del teatro e della danza, come la Byrd Hoffman School of Byrds di Robert Wilson, la Ridiculous Theatrical Company, fondata da Charles Ludlam, e The Cockettes, gruppo teatrale di impronta hippie proveniente da San Francisco. Hujar fotografò gli spettacoli di queste compagnie, ma soprattutto ne immortalò gli attori e i ballerini dietro le quinte, nei momenti riposo o durante le prove, attratto dalla vitalità e mutevolezza dei loro gesti e movimenti.

La marchesa Fioravanti, 1963
Era interessato al labile confine fra arte e vita, maschile e femminile, forza e vulnerabilità. Del suo lavoro diceva: «Realizzo fotografie chiare e dirette di soggetti complicati e difficili. Fotografo chi si spinge all’estremo e chi si aggrappa alla libertà di essere sé stesso». Libertà alla quale anche lui anelava. Intimi e autentici, gran parte dei ritratti di Hujar sono l’esito di una sensibilità condivisa con il soggetto e rivelano una umanità e una profondità rare, sottolineate da uno stile asciutto e privo di orpelli, e da un’attenzione speciale per la luce e per i dettagli, che il fotografo perfezionava in camera oscura.

Two Italian Men and Their Girlfriends, 1978
Nel 1981 Hujar incontrò David Wojnarowicz, artista emarginato e controverso, con il quale ebbe una breve relazione. Ad accomunare i due non fu solo il passato burrascoso, caratterizzato da abusi e povertà, ma anche il destino: nel 1992 l’AIDS stroncò anche la vita di Wojnarowicz. Subito dopo la morte di Hujar, Wojnarowicz lo fotografò e usò alcune delle immagini nell’opera Untitled (Hujar Dead) (1988-1989), composta anche da un testo colmo di rabbia che denunciava la società americana per l’omofobia imperante e la responsabilità del governo per il diffondersi dell’AIDS. Il mondo stava cambiando e la New York fotografata da Peter Hujar si stava a poco a poco spegnendo. Fortunatamente resta una preziosa raccolta di immagini a testimoniare un’epoca di anime e di opere audaci e ribelli.
Casorati
Voci dipinte 02.03.2025, 10:35
Contenuto audio