Nel 1921, a Omegna, sulle rive del Lago d’Orta, nel cuore di una terra dove la lavorazione del legno e dei metalli è una tradizione secolare, Giovanni Alessi fonda l’officina metallurgica Fratelli Alessi Omegna. Specializzata nella produzione di oggetti in rame, ottone e alpacca, destinati al mercato domestico e successivamente all’hôtellerie, l’azienda cresce rapidamente. Durante la Seconda Guerra Mondiale, come molte altre aziende del settore metallurgico, Alessi è costretta a riconvertirsi alla produzione bellica. Ma è nel Dopoguerra che la vera trasformazione ha inizio: Carlo Alessi guida l’azienda verso una dimensione più industriale, introducendo l’acciaio inossidabile e cambiando il nome in ALFRA (Alessi Fratelli). Negli anni Cinquanta e Sessanta, Alessi diventa parte integrante del boom del design italiano, collaborando con i primi designer esterni e sviluppando quell’identità creativa che la renderà simbolo mondiale del Made in Italy.
Il design è cultura
Quando Alberto Alessi entra in azienda nel Settanta, la produzione è solida, ma manca di una direzione artistica e culturale. Laureato in giurisprudenza, decide di abbandonare il percorso professionale che la famiglia aveva immaginato per lui per seguire una nuova direzione: «Volevo creare oggetti che non fossero solo utili, ma che fossero portatori di un valore estetico e culturale. Volevo soddisfare il bisogno di bellezza nella vita quotidiana. La nostra natura, in fondo, è di mediare tra l’espressione più avanzata della cultura creativa nel campo del product design e del mercato, che talvolta può essere banale. Questa attività [di mediazione] ha in realtà radici già nel secondo Dopoguerra, quando una nuova generazione di imprenditori, come mio padre, e di nuovi architetti italiani, come Castiglioni e Magistretti, ha dato vita a un incontro unico tra genialità imprenditoriale e creativa. È stato un momento fondante per il design italiano (penso anche a Cassina, Flos ed Artemide), e noi ne siamo eredi». I suoi primi progetti includono una collezione di vassoi e cesti, un sistema modulare da tavola ideato da Franco Sargiani ed Ejia Helander, e Alessi d’Après, un progetto di ricerca dedicato alla produzione di “multipli d’arte”, che coinvolse, fra gli altri, persino Salvador Dalì (“L’obget inutile”).

Alberto Alessi
La borderline
Ma qual è il segreto di Alessi? «Ci muoviamo sulla borderline tra il possibile e il non possibile. Il possibile è rappresentato dai progetti che il pubblico riesce ad accogliere e comprendere. Il non possibile, invece, è quello che ancora non viene capito o accettato. Vogliamo vivere su questa frontiera, che non è un limite netto tra oggetto d’arte e oggetto funzionale, bensì luogo di incontro, una tensione incessante. Scegliamo di correre il rischio, evitando sia la noia della banalità sia l’eccessiva audacia di un’avanguardia incompresa». Questo approccio spiega perché ogni progetto sia un delicato equilibrio tra estetica e funzione: «Tutto ha origine da una necessità pratica, ma ciò rappresenta soltanto il punto di partenza. Pensiamo a una ciotola d’argilla: nata millenni fa per contenere, viene ben presto intagliata, ornata, modellata. Oggi è lo stesso. Partiamo da un’idea concreta, e poi lasciamo che il design racconti una storia: una caffettiera deve fare un buon caffè, certo, ma deve anche avere una nuova immagine, qualcosa che la renda unica».
Interno dello stabilimento di Crusinallo, dove la tradizione manifatturiera incontra l’innovazione del design
La realizzazione della "9090", l’iconica caffettiera di Richard Sapper
Dettaglio degli stampi da pressatura

Con l’esperienza, Alberto Alessi ha concepito un singolare metodo per valutare la potenziale riuscita di un progetto, fondato su quattro parametri: funzione, prezzo, sensorialità-memoria-immaginario: «Un oggetto deve funzionare bene e avere un prezzo competitivo, ma soprattutto deve creare una connessione emotiva con chi lo osserva. Deve far dire: “che bello!”. L’ultimo parametro riguarda il linguaggio: cosa comunica l’oggetto e come dialoga con il pubblico». Ma non tutto può essere un successo. «Non bisogna avere paura dei fiaschi. Anzi. Ogni tanto dobbiamo superare quella linea invisibile tra il comprensibile e l’incomprensibile, affinché questa linea divenga tangibile».
Un esempio emblematico di questo approccio di lavoro sulla borderline tra forma e funzione è il progetto del bollitore Hot Bertaa di Philippe Starck disegnato nel 1990: il corpo ha la forma obliquamente stilizzata di una howitzer; perforata da un tubo conico, simile a una freccia, che da un lato funge sia da manico che da ingresso per riempire il bollitore e dall’altro diviene il beccuccio versatore. Il suo design ha provocato scalpore e ha rotto gli schemi ed è, anche per questo, diventato un oggetto di culto custodito nelle collezioni permanenti di diversi musei. Nonostante ciò, è stato commercialmente un fiasco in quanto la sua forma innovativa e originale ha comportato diversi problemi a livello funzionale. Quella linea invisibile che divide il possibile dall’impossibile, ossia quel progetto che sarà amato dal pubblico da uno che sarà rifiutato, è purtroppo visibile solo quando la si supera. Il progetto di Hot Bertaa è uno di questi casi. Anche nella fase di sperimentazione degli anni Novanta, che vede nascere il Centro Studi Alessi, l’azienda percorre nuove strade con materiali come la plastica, il legno, la porcellana e il vetro. Da qui nascono progetti audaci dal risultato che si rileverà poi squisitamente pop, come lo spremiagrumi Juicy Salif di Philippe Starck. «Non è solo uno spremiagrumi: è una scultura. Per anni ne abbiamo venduti più di centomila pezzi l’anno. Ma quando operi sulla famosa linea di confine, devi accettare il rischio di essere incompreso».
Il Conico di Aldo Rossi, bollitore realizzato in acciaio 18/10, in alcune fasi della sua produzione
L’estremità superiore viene pressata per accogliere il coperchio
Il fondo del bollitore viene pressato per assumere la tipica forma a croce, che lo rende indeformabile

La gamma di prodotti concepiti da Aldo Rossi
Il rituale alessiano
Nel corso degli anni, Alessi ha saputo rimodulare la propria offerta alle evoluzioni del mercato senza mai perdere la propria identità. Al cospetto della produzione di massa e al consumismo usa e getta, l’azienda continua a puntare su oggetti dall’alto valore artistico: «Non possiamo competere con i prezzi bassi dei produttori orientali. Dobbiamo creare oggetti eccezionali, che portino con sé un valore culturale ed emotivo».
Un esempio di questa visione è il ritorno della moka, che sta vivendo una nuova età dell’oro dopo il boom delle macchine a capsule. «I dati di vendita lo attestano: la gente sta riscoprendo i valori della comunione e del rituale attorno al caffè. Il design deve cogliere questi cambiamenti e rispondere ai bisogni del pubblico.» Anche la tecnologia, oggi onnipresente, gioca un ruolo fondamentale, ma qui ad Omegna, la si usa con parsimonia: «Come un poeta tinge dalla sua cassetta di attrezzi, anche noi usiamo la tecnologia, ma senza farci dominare. Deve essere uno strumento, non un diktat».
Il cestino Barket di Michael Boucquillon e Donia Maaoui viene tagliato da un laser ad alta precisione da una singola lastra di accia inox. Successivamente, viene pressato per ottenere la forma sferica
Uno sguardo al passato
Nel nostro viaggio alla scoperta della Fabbrica del Design, che si conclude attraversando i pavimenti in marmo degli anni Cinquanta e il campionario in stile anni Settanta, ogni spazio racconta le numerose tappe di un’azienda diventata a tutti gli effetti un vero e proprio laboratorio culturale. Non solo memoria della sua evoluzione, ma anche specchio del cambiamento della società, dei consumi e del rapporto con le tradizioni.
Alessi ha infatti lavorato con i più grandi nomi del design e dell’architettura (oltre 900, per circa 1400 oggetti). «Abbiamo anche recuperato figure straordinarie come Christopher Dresser e Josef Hoffmann o ancora Marianne Brandt, unica donna ad aver lavorato nel Metallwerkstatt del Bauhaus. Ho però sempre pensato che Umberto Eco avrebbe portato un contributo unico: una poetica diversa, fuori dal mondo del design ma perfettamente adatta al nostro. La sua capacità di unire poesia e progettazione [riferendosi alla complessità dell’intreccio de Il nome della rosa] sarebbe stata perfetta per noi».
Non tutto è stato però facile, confida Alberto Alessi. «Mi ricordo benissimo quella frase: ti ad duvevat fà al nudari. È stato difficile all’inizio, ma [col tempo] ho digerito la cosa. Mio nonno era un tornitore, e non capiva il mio mondo. Oggi credo che sarebbe orgoglioso. Anche se i primi progetti che ho coordinato sono stati un insuccesso, da lì ho imparato. Il mio sogno, forse un po’ utopico, era di creare arte per tutti. Forse all’epoca era un po’ prematuro, ma oggi quel sogno vive in Alessi».
African design. I metalli del potere
SEIDISERA Magazine 22.02.2025, 18:35
Contenuto audio
Dalle stelle… alle stalle
Laser 23.02.2022, 09:00
Contenuto audio