Cinema

Alien: 45 anni di meraviglia (grazie alla testa dura di Ridley Scott)

In occasione dell’uscita di Romulus, ripercorriamo le tappe che hanno portato il regista a creare un mito del cinema, insieme a Dan O’Bannon e H.R. Giger

  • 13 agosto, 09:12
  • 13 agosto, 15:57
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Di: Michele Serra

Questo non è un articolo su Alien: Romulus, nono film (o settimo, se non consideriamo gli spin-off) della saga di Alien, diretto da Fede Álvarez (in uscita il 14 agosto). Perché sarebbe una banalità confermare quello che già immaginate, e cioè che dentro quel film troverete cose tipo: una donna che sopravvive; una scena dentro un ascensore; e qualcuno che, a un certo punto, dice: “Sta’ lontan* da l*i!”. Oltre, naturalmente, a Xenomorfi e Facehugger. Perché Alien è un cult – scusate, anche questa è una banalità – che vive ancora oggi, a 45 anni dalla prima uscita, grazie all’affetto degli appassionati. Quindi il fan service non dà fastidio, soprattutto se è trattato con una certa raffinatezza, come fa Álvarez.
Ma questo, dicevo, non è un articolo su Romulus, bensì una celebrazione della meraviglia che le incarnazioni di Alien riescono ancora a suscitare negli spettatori. Quando le creature appaiono sullo schermo, le emozioni sono le stesse che si provano davanti alle opere d’arte che riconosciamo come tali per istinto: perché ci affascinano, e spesso allo stesso tempo ci inquietano, a volte ci sconvolgono. In ogni caso, rimangono con noi. Proprio come è successo alle immagini degli Xenomorfi, nate dagli incubi notturni di Hans Ruedi Giger (non è un modo di dire: l’artista di Coira aveva sofferto a lungo di pavor nocturnis, un disturbo del sonno che provoca paura e sogni spaventosi nel corso della prima fase r.e.m.) e rese concrete dal lavoro di Carlo Rambaldi, che animò la prima creatura della saga facendola diventare simile a un enorme insetto che si muove in modo meccanico, a scatti. È in effetti soprattutto il movimento di quel mostro, a trasformare la semplice inquietudine in paura, il disgusto in un senso di minaccia. Mentre la meraviglia rimane, come il fascino.

Alien è un caso molto raro nella cultura popolare dell’ultimo secolo: un’idea che nasce dal lavoro di geni che si incontrano nel momento giusto, e che continua a produrre nuove storie. Come giustamente ha scritto Emanuele Rauco, Alien è un esempio perfetto di high concept hollywoodiano, un’idea semplice quanto, appunto, altissima, che può essere «scomposta, serializzata, reinventata, cambiata di contesto narrativo e ricollocata laddove le esigenze del mercato la vogliono».  All’infinito, forse, o almeno fino alla fine del cinema così come lo conosciamo – che potrebbe anche essere vicina, ma non vorrei divagare troppo.
Torniamo a Alien, high concept che si è dimostrato efficacissimo non solo dal punto di vista commerciale (come dimostrano i film, il merchandising, i fumetti, i videogame, le serie televisive in arrivo), ma anche da quello artistico – fatti salvi gli inevitabili sprofondi raggiunti nel corso degli anni. E torniamo ai geni che lo hanno portato al pubblico 45 anni fa.


Gli incroci magici di Alien (con John Carpenter, Alejandro Jodorowsky, George Lucas)

La storia comincia cinque anni prima dell’uscita al cinema di Alien, quando lo studente di cinema Dan O’ Bannon aiuta un amico (e compagno di studi alla University of Southern California) a realizzare il suo film di debutto: l’amico è John Carpenter, il film si intitola Dark Star. È una pellicola a bassissimo costo, ovviamente, che tuttavia attrae l’attenzione degli addetti ai lavori, tanto che O’Bannon riceve un’offerta irrinunciabile, per un appassionato di fantascienza: Alejandro Jodorowsky sta lavorando a un adattamento di Dune, e vuole la sua collaborazione per creare gli effetti speciali di quello che diventerà un rivoluzionario lungometraggio di dieci ore, capace di cambiare la storia del cinema. Certo, il regista cileno non promette di pagarlo centomila dollari l’ora come aveva fatto con Salvador Dalì (che secondo il progetto doveva interpretare l’imperatore Shaddam IV), ma O’Bannon è ugualmente entusiasta, e si trova a lavorare alla pre-produzione con artisti come Moebius e – eccolo – H.R. Giger. Quel lavoro dura tre anni, durante i quali Dan entra in contatto con alcune delle menti creative più importanti dell’epoca. E finisce nel nulla: al termine, nessuno studio vuole davvero finanziare un film tanto rischioso. O’Bannon è senza lavoro, al verde, costretto a vivere sul divano della casa dell’amico sceneggiatore Ron Shusett.
Da quella situazione disperata, però, nasce un tesoro, quando Dan e Ron lavorano su un soggetto che il primo aveva nel cassetto dai tempi di Dark Star. Prende forma una storia che ruba qua e là elementi da tutti i racconti e film fantascientifici e horror amati dai due amici, dal Pianeta proibito alla narrativa di Howard Phillips Lovecraft, e li ricompone ammantandoli di una inquietante pulsione sessuale (del resto, si sa che gli americani sono sempre stati ossessionati dal sesso, e gli anni Settanta hanno segnato probabilmente l’apice di quella ossessione). Il soggetto suscita l’interesse della 20th Century Fox, che però poi traccheggia, incerta, mentre i produttori David Giler e Walter Hill (sì, quello) cercano di riscrivere la sceneggiatura con l’intento di scippare la storia ai due creatori originali. A risolvere la situazione saranno due registi, allora giovani promesse, oggi venerati maestri: George Lucas e Ridley Scott. Lucas avrebbe offerto un aiuto “esterno”: il successo di Star Wars, che convince i manager della Fox a investire nella fantascienza (e poco importa se Alien, sulla carta, appare già chiaramente il contrario di Guerre Stellari). Scott invece, una volta messo a capo del progetto, raddrizza i torti creativi subiti da O’Bannon e Shusett, e riporta la loro storia al centro del progetto (anche se, a dire il vero, i due dovranno comunque ricorrere a un arbitrato del sindacato sceneggiatori, per rimettere le loro firme sullo script). È lo stesso Scott a chiedere con forza un aumento del budget, poi a pretendere che a capo del “dipartimento mostri” ci sia proprio quell’illustratore svizzero conosciuto da O’Bannon durante la lavorazione del mai nato Dune: H.R. Giger. A convincere il regista che Giger sia l’uomo giusto è un dipinto, Necronom IV, in cui compare una figura aliena dalla testa allungata, di chiara forma fallica: un’immagine che sembra riassumere l’oscurità che si agita dentro la storia, e che è destinata a trasformarsi in uno dei mostri più noti della storia del cinema.

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La testardaggine di Ridley Scott è stata, a ben guardare, una costante dell’intero processo produttivo, e probabilmente il vero motivo per cui Alien è il capolavoro che conosciamo, sintesi senza compromessi tra arte e commercio pop: lui ottiene i soldi per costruire il relitto alieno su cui vengono trovate le uova, mezzo milione di dollari per una sequenza di cinque minuti; lui decide di allungare il film, con un ulteriore scontro finale (ah ah) ambientato all’interno della capsula di salvataggio; lui rifiuta categoricamente di tagliare la scena in cui l’alieno esce dal petto del vicecapitano Kane, che la casa di produzione aveva giudicato troppo violenta (dimostrando una volta di più che le major non vedono mai oltre la punta del loro naso); lui, infine, mette ordine nella rivalità tra le due attrici che interpretavano i principali ruoli femminili, Sigourney Weaver e Veronica Cartwright.
La produzione del primo Alien, insomma, è una battaglia. Ma il successo è enorme: commerciale, certo, ma soprattutto per l’impatto sull’immaginario collettivo. Tanto forte che un fanatico cattolico finisce per dare fuoco alle scenografie di Giger esposte a Los Angeles nel cortile dell’Egyptian Theatre, ritenendole opera del demonio. Se quelle meravigliose (e costose) opere sono andate in cenere – oggi sarebbero senza dubbio battute all’asta per cifre mirabolanti – il figlio alieno delle visioni di Giger, della maestria di Rambaldi, della fantasia di O’Bannon e Shusett, della testardaggine di Ridley Scott, dell’interpretazione di Sigourney Weaver e di tutti gli altri geni che hanno contribuito alla sua creazione, è ancora in perfetta forma.
Pronto per essere reinventato, una volta di più, dal prossimo autore, l’ennesimo di una sequenza di nomi diversi, lontani per stile e impostazione, eppure sempre capaci di dimostrare che Alien è una storia destinata a rimanere: James Cameron, David Fincher, Jean-Pierre Jeunet, Fede Álvarez. Chissà cosa ci riserva il prossimo mezzo secolo, là fuori nello spazio.

Alien è il film della vita?

RSI Cultura 08.05.2017, 13:07

  • Alien
  • Ridley Scott
  • Hans Ruedi Giger
  • Dan O’ Bannon

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