Incontro Kevin Merz a Besso, al Bar Corallo, singolare luogo di ritrovo al quale il regista luganese ha dedicato uno dei suoi tre film sui microcosmi prodotti dalla RSI per la trasmissione «Storie».
Cineasta e fotografo di origini tedesche, svizzere e ghanesi, nell'essenza Merz – del quale ho una personale conoscenza di lunga data – non sembra cambiato negli anni, né dal punto di vista fisico-caratteriale né da quello del suo approccio alla creazione: capelli lunghi, barba incolta e borsa a tracolla, ancora oggi conserva la sua posizione marginale, da outsider, che garantisce al suo lavoro una precisa identità; tra l'altro, proprio l'identità, unitamente alla questione dell'origine, è uno dei temi ricorrenti della sua ricerca.
«Mi capita spesso di cambiare opinione, anche su di me, più volte nell'arco della stessa giornata. Mi piace lasciar fluire i pensieri in tante direzioni...», dice quando iniziamo a parlare del suo percorso nell'arte e, soprattutto, nel cinema. Ci spostiamo nel suo atelier, dove fra pile di VHS, vecchi libri e armamentari vari la conversazione verte sui suoi esordi: «Qual è stata la scintilla che ha dato fuoco alla miccia?», gli domando, «perché sei finito a fare cinema e non altro, come è stato invece per alcuni tuoi coetanei?» (Penso ad esempio a Stefano Terranova, amico pittore alla cui scomparsa Merz ha dedicato un toccante film-documento).
«Come sai, da ragazzino appartenevo a un gruppo di skater e allora quello stile di vita era molto legato al filmare, al fotografare. Quando da Zurigo mi trasferii a Lugano, con un amico realizzammo il nostro primo film. Era il 1990 e avevo dodici anni. Si chiamava Stopp Valensina (Valensina era il nome di un succo d'arancia che tutti bevevano). Lo montammo attaccando la camera al videoregistratore e facendo stop, play, rec. E pure altri materiali dell'epoca che oggi, ad esempio, appaiono in Terra (2012) provengono da quel periodo. Non c'erano i cellulari, ma tra gli skater girava spesso una telecamera, solitamente una Video 8, con la quale ci si filmava a vicenda».
Ad oggi Merz ha firmato una decina di film, parecchie collaborazioni e diversi cortometraggi. La sua cifra è quella della testimonianza attraverso il personale coinvolgimento nell'opera. Fra le sue creazioni vanno menzionati l'intenso Glorious Exit (MoMa Presents Series 2007), dove lo vediamo seguire il fratello Jarreth Merz – uomo di cinema con cui ha realizzato anche il notevole An african election (2010) – durante il suo viaggio in Nigeria per organizzare il funerale del padre, così come Gotthard, One Life One Soul (2015), documentario sulla celebre band ticinese che lo ha visto ospite della Piazza Grande per il 70° Locarno Film Festival. Ma quando gli si chiede qual è il lavoro che più lo rappresenta, assieme al sopraccitato Terra Merz subito menziona il suo corto d'esordio, Rekrutenschule Schweiz (2000), un collage che raccoglie surreali frammenti della sua esperienza alla scuola recluta.
«Si tratta di opere nate da un profondo bisogno di esprimersi, al di là dell'ego, della vanità o della smania di raggiungere determinati obiettivi. Sono cose che ho fatto perché sentivo di doverle fare e basta». Entrambi i lavori si fondano su un materiale grezzo, incandescente, che vede protagonista il furore di una giovinezza autodistruttiva nell'atto di celebrare se stessa attraverso la sfida all'ordine. Al contempo, è come se queste storie suggerissero qualcosa sull'impossibilità di crescere, sul rischio di rimanere tragicamente confinati nel recinto di una fanciullezza destinata a invecchiare con indosso la maschera della rivolta.
Il folle universo immortalato in questi primi video è perfettamente in linea col percorso formativo di Merz, che ha avuto luogo, oltre che nel mondo degli skateboarder, nei giorni della storica occupazione del CSOA Il Molino a Lugano e nelle brillanti edizioni degli anni '90 del Locarno Film Festival (fra le esperienze indimenticabili, Merz cita la proiezione in Piazza Grande de I cospiratori del piacere di Jan Švankmajer), nel periodo che trascorse a Milano frequentando l'Istituto Italiano di Fotografia e lavorando per «02», periodico tascabile in cui erano segnalati tutti gli eventi culturali – e controculturali – della metropoli lombarda.

Oltre a ciò, fondamentale per Merz è stato il suo apprendistato zurighese col regista Wolfgang Lindroos, del quale nel 2000 è stato assistente per un anno (successivamente lavorerà anche accanto a Peter Fleischmann e al direttore della fotografia Ueli Steiger). Questa esperienza, dice, «ai limiti della realtà» ha influenzato profondamente il suo modo di vivere l'arte: «Se dovessi fare un film su un regista, lo farei su di lui. È stato il mio primo maestro, non tanto di cinema quanto di “fare film”. Proveniva da una famiglia di filmmaker. Aveva una casa di produzione propria e, a suo tempo, era stato capo cameraman della SFR. Ma, soprattutto, era un uomo che aveva intrapreso un viaggio di ricerca spirituale. E questa ricerca era costantemente applicata alla sua arte. Faceva film per capire per quale ragione le persone si incontrassero in questa vita, certo come era che tutti si fossero già conosciuti e dovessero ritrovarsi per risolvere dei conti in sospeso. I suoi lavori, da lui chiamati Videozitig, erano pieni di simboli, di significati, perché sentiva che ogni cosa aveva una sua ragione nascosta».
La ricerca delle “ragioni nascoste” che sottendono alla formazione di un destino è infatti una delle costanti del cinema di Merz, nel quale, fin dal principio, sono posti in evidenza l'incrocio degli eventi, la concomitanza dei significati e gli accostamenti che intessono la trama di un'esistenza. Ad esempio in Terra tutto parte da un'associazione dolorosa sulla scomparsa dell'amico: cosa rappresenta, per un artista-performer, morire l'11 settembre in una stazione che ha per nome Paradiso? E pure in Glorious Exit è ancora la bizzarra conformazione in cui l'evento della morte si verifica a indurre a voler raccontare qualcosa: è possibile incontrare un padre che non si è mai conosciuto facendosi improvvisamente carico – come la tradizione nigeriana richiede a ogni primogenito – del suo funerale?
Questa lettura del mistero della realtà ci porta, infine, ad affrontare il grande tema che Merz circuisce da anni e al quale, un giorno, dedicherà un lavoro che sente come necessario: la famiglia. «Forse si chiamerà Per noi. È un progetto in cui si riuniranno materiali che vedono toccarsi mondi lontanissimi: il Ghana, l'Appenzello, la DDR e la Serbia. Siccome a me interessa l'arte che cura, un po' come Wolfgang Lindroos vorrei utilizzare il cinema per snodare delle questioni del passato e, in un certo senso, operare un cambiamento. Ora ho anche due bambine e mi piacerebbe avessero come una grande mappa di ciò che le precede, così da poter vedere quel che è stato e non perdersi in una storia di cui non conoscono le radici».