Benvenuti nel 1997. O, se visto trent’anni fa, benvenuti nel 2024. Quel che è certo, a prescindere dal quando di chi guarda, è che Hayao Miyazaki sia e sia stato un visionario, o volendosi spingere ancora un po’ più in là, ma in direzione laica, un profeta. Un osservatore silenzioso e un narratore lungimirante, capace - chi più di lui - di immaginare. E su quelle immagini costruire un intero immaginario che s’è fatto marchio, studio, premi, addii, ritorni, eredità.
Era il 1997 e a un lustro da Porco Rosso il Maestro dell’animazione giapponese scrisse e disegnò Principessa Mononoke, il De rerum natura d’Oriente. Un film in cui, trent’anni fa, c’era già tutto. C’erano l’uomo, la natura e la natura dell’uomo. C’era, soprattutto, l’urgenza di ritrovare un equilibrio fisiologico, consapevoli (ma lo siamo mai stati?) che una volta rotto quell’equilibrio l’altra parte, quella che ci stava di fronte e a cui abbiamo dato le spalle, non avrebbe potuto far altro che reagire, naturalmente e senza badare a impeto e violenza. Perché così è. Un’urgenza preoccupata che vive nella foga atletica e spirituale di Ashitaka, il ragazzo che parte alla ricerca della cura per il suo braccio indemoniato, mai come in questo caso sineddoche dell’umanità. Un’urgenza arresa che vive negli occhi di Moro, la dea lupa madre adottiva di San, la principessa spettro, la Principessa Mononoke. In lei, la ragazza-lupa, l’essere umano naturale, l’urgenza è furiosa e le fa odiare i suoi simili a tal punto da non riconoscersi l’amore per uno di loro.
Mononoke è l’avvertimento che così va tutto a catafascio. È monito e ammissione, ma con i toni - e i colori - di Miyazaki. Che racconta senza giudicare, ma allo stesso tempo illustra senza scontare. La prima sequenza parla chiaro: Principessa Mononoke è sangue, viscere e violenza. È teste mozzate e putrefazione, morte e “vendetta”, tradimento e vigliaccheria. Ma allo stesso tempo, con la naturalezza e la trasparenza di un immaginario altro - e alto - è silenzio e saggezza, ascolto e spiritualità. È dialogo, in un equilibrio che qui sì è perfetto. Ed è proprio nella spiritualità che Miyazaki sembra trovare ristoro e consiglio: persa la ragione e sordi alla scienza, forse la salvezza è nel trasloco della discussione in una dimensione spirituale. Nel riconnettersi e - appunto - re-imparare ad ascoltare; tornare ad accorgersi dei kodama, accorgersi che gli alberi non sono soltanto radici e chioma, ma anche spirito.
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L’ambientazione di Principessa Mononoke è una dichiarazione d’intenti e un racconto del tempo che da linea retta si chiude a cerchio: passano i secoli, tornano gli errori. L’epoca Muromachi, in Giappone, è l’epoca della polvere da sparo. Del duello senza corpi, dell’ìmpari. La fine dei limiti, ad esempio quello del doverti essere vicino, prossimo, per colpirti. La polvere da sparo è la tecnologia andata oltre, l’intelligenza umana che sborda nella follia, o peggio ancora nell’hybris di Eboshi, la signora della Città del Ferro: se voglio, posso, compreso uccidere il Dio Bestia. E ad illuminare, facendosi stelle o tempesta, è proprio lui, il Dio Bestia. È la sua indifferenza, quell’espressione sempre uguale a sé stessa, sospesa tra la cortesia e l’angoscia, tra la pace qui e ora e il terrore imminente. Un’indifferenza che la natura, nei confronti dell’uomo, può permettersi. L’uomo invece, nei confronti della natura, no. Eppure…
I kodama, spiriti della foresta
Principessa Mononoke è John Ford e tradizione giapponese, è la larga e profonda colonna sonora di Joe Hisaishi (una carriera rimbalzata tra Kitano e Miyazaki) e i 144 mila fotogrammi battezzati uno ad uno dal regista, è un consiglio di consapevolezza. La consapevolezza di essere parte di un tutto; e pure piccola. E ancora, la consapevolezza che non tutto è visibile agli occhi, non tutto è “a tiro”. Poi il pensiero si allarga, si espande e muta tra le forme, scombinando le certezze. Ché la morte è nuova forma e nulla è cattivo per natura. Non è cattiva Eboshi, benché debba lasciarci un braccio per capire che senza natura non c’è umanità. Cattivo, o peggio ancora miope e stupido è l’atteggiamento con cui si può decidere di vivere, senza accorgersi che al massimo si sta sopravvivendo. Perso, sconfitto nel suo sorriso gradasso di chi ha capito tutto cullandosi nell’ignoranza è il monaco, il personaggio più disturbante e pericolosamente simile alla quotidianità di chi guarda. Poi ci sono loro, i ragazzi e le ragazze, quasi sempre gli eroi di Miyazaki. Se l’adulto è smarrito (ma mai perso, sempre recuperabile) i giovani sono l’orizzonte e la bussola; se solo li si lasciasse fare, dire e decidere, coerenti con la direzione del tempo. Gli eroi sono Ashitaka e San, la principessa mononoke, il loro sentire, il loro amare e odiare ancora liberi da sovrastrutture e corruzioni, ancora cittadini della foresta, tra gli alberi. Che sono chioma, radici e spirito.
Moro, ma non c’è via per il bosco e gli umani di vivere senza disputare? Davvero ormai non si può più fermarli?»
(Principessa Mononoke, di Hayao Miyazaki, 1997)
Dai canti antichi alle canzone di oggi del mio Giappone (2./2)
Mixtape 11.10.2024, 09:45
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