C’è qualcosa d’incredibilmente dolce, commovente e persino divertente in Queer di Luca Guadagnino, qualcosa che ricorda anche molte delle sensazioni provate guardando quello che è, ad oggi, il suo più grande successo, Chiamami col tuo nome (2017).
Il regista più “hype” del momento, soprattutto per una giovane generazione che lo segue con grande devozione in qualsiasi cosa faccia, è incredibilmente bravo a parlare di amore.
Di primo amore. Di quell’amore che sa dare estasi e crisi d’astinenza, fisica, proprio come una droga. Probabilmente è questo il motivo che lo ha spinto a voler adattare per il cinema il secondo romanzo dell’ispiratore della Beat generation William S. Burroughs, Queer, scritto tra il 1951 e il 1953 ma pubblicato solo nel 1985 (c’è da scommettere che una nuova edizione sia già in arrivo). E se c’è stato un autore capace di raccontarci cosa significa essere dipendente da qualcosa o qualcuno, quello è stato William S. Burroughs, da Junkie (1951), il suo sconvolgente esordio, in poi.
Siamo a Città del Messico negli anni ’50 e Lee, personaggio sulla quarantina che incarna Burroughs, è uno scrittore statunitense che passa le giornate tendenzialmente solo, spostandosi di bar in bar, consumando decisamente troppo alcool e troppe droghe, alla ricerca di rapporti frugali con uomini e ragazzi incontrati nei diversi locali frequentati da omosessuali. Daniel Craig, che avevamo lasciato nei panni di James Bond praticamente, è favoloso nel difficile ruolo di uomo adulto, pieno di problemi - nel socializzare, nello stringere rapporti, nel gestire le sue dipendenze, nel governare la sua intera esistenza - che però, malgrado l’estrema fragilità, è costantemente alla ricerca di una nuova emozione, estrema o meno che sia. Nella goffaggine dei suoi gesti, dei movimenti, anche del suo umorismo, Lee è temerario, disposto a qualsiasi sofferenza o delusione, se questa può portare all’essere sovrastati da un attimo di gioia, di grandezza, di amore.
Ed è così che si butta completamente nel corteggiamento di Eugene Allerton, un giovane studente piuttosto timido e introverso, che rivelerà poi strati di una personalità più complessa. Anche l’attore statunitense Drew Starkey, che interpreta il ragazzo, ha lasciato intravvedere del buon potenziale per un ruolo difficile, potenziale che speriamo faccia maturare anche ora che, con questo film, si è immesso sul cammino per diventare una star.
Classe e apprezzata furbizia
Guadagnino è diventato un regista molto divisivo. La sua capacità di connettersi con un pubblico di giovani adulti, il suo fiuto per i nuovi volti, il suo successo negli USA, il suo gusto per la musica e il design, la sua bravura nell’intercettare il ritorno di riferimenti e immaginari popolari o post moderni lo hanno reso amato o sminuito da fazioni opposte, tra il pubblico e tra la critica. È talmente osteggiato in alcuni casi, o incensato in altri, che ci si sente quasi in dovere di posizionarsi, di dichiararsi, quando si parla di un suo film, come “pro, contro o neutrale”. Una sensazione sciocca ma che può dare anche un certo contesto a chi legge. Chi vi scrive infatti ha trovato poca soddisfazione per esempio nel recente Challengers (2023): troppo patinato, troppo americano, troppo “brandizzato”, ma ha davvero ricevuto qualcosa di emozionante nel guardare Queer, qualcosa che genera malinconia, affetto e empatia.
Questo poi è un film che regala anche esteticamente: nessuno può negarlo, Guadagnino ha gusto e stile. Dai costumi impeccabili affidati a Jonathan Anderson, direttore creativo della casa di moda LOEWE, alle scenografie di Stefano Baisi, con i magnifici luoghi ricostruiti a Cinecittà, volutamente “falsi” nella loro quotidiana e umile perfezione.
È un mondo visto attraverso la lente di un amore che intuiamo non sarà mai veramente compiuto ma sicuramente mai nemmeno finito, una Città del Messico tirata a lucido, idealizzata, come sono idealizzati i ricordi o le immagini dei desideri e delle speranze più profonde.
Il suono di un cuore che esplode
Anche la colonna sonora e la selezione musicale del film è un regalo ben confezionato. Tanti (tutti?) i brani musicali cronologicamente inesatti, provenienti da quegli anni ’80, ’90 e primi 2000 che non riusciamo ad abbandonare: New Order, Prince, anche i bergamaschi Verdena, e tanti Nirvana; ricordiamo che Burroughs aveva collaborato con un altro animo in pena come quello di Kurt Cobain. Ecco, ognuno di questi brani è piazzato come una magnifica trappola. Il regista sa come farci produrre endorfine e anche in questo caso siamo nel campo della dipendenza: una volta che nella vita hai sentito certe chitarre vorresti ascoltarle in eterno.
Il colpo di grazia emotivo però lo assesta il tema musicale composto della coppia Trent Reznor e Atticus Ross, già vincitori di due Oscar con le musiche per The Social Network e per Soul. Un tema che è il suono che fa il cuore quando gli occhi si posano per la prima volta su qualcuno di cui ci si innamora.
Queer è un film riuscito, caldo, affettuoso, sofferto, malinconico. Parla di amore e di dipendenze, certo, ma parla anche del viaggio che si sceglie di fare o di non fare alla scoperta di sé stessi, addentrandosi in spazi profondi. Un percorso che fa spalancare porte o distogliere sguardi, che passa per forza attraverso l’interazione con l’altro, la comunicazione, lo scambio, anche il sacrificio.
Del film esistono a quanto pare più versioni, con lunghezze differenti (lo ha detto il direttore artistico della Biennale Cinema, Alberto Barbera). Se l’unica “pecca” di Queer è quella in effetti di risultare affrettato in alcuni passaggi, è perché probabilmente ha sofferto di qualche taglio. Speriamo quindi che venga distribuita anche una director’s cut, magari con qualche scena in più con Jason Schwartzman: ha un ruolo marginale e si vede poco, ma quando c’è è strepitoso.
81° Mostra Internazionale di Venezia
Spoiler 03.09.2024, 13:40