Inizia con una citazione di Lamartine l’ultimo film di Luc Besson, Dogman: “ovunque ci sia un infelice, dio invia un cane”. È di questi anni il trend di TikTok che va sotto il nome ironico di Universal Cat Distribution System, secondo il quale non sei tu che adotti il gatto, è il gatto che adotta te. Apparirebbe, il felino, nel momento in cui ne hai bisogno. Visione antropocentrica (basata su un supposto bisogno umano nei confronti dell’animale e mai sul contrario) mascherata da zoofila, in ogni caso - con i gatti al posto dei cani, e con l’universo al posto di dio - quella di TikTok è la stessa di Lamartine.
Dogman è un film ottimamente realizzato e godibile, ma va analizzato. Allo spettatore il primo paragone verrà in automatico, e precisamente con il Joker di Joaquin Phoenix. Per esempio, sono entrambi film sul tabagismo. (Le altre analogie, al di là di questo maldestro tentativo di ironia, verranno fuori nel corso di questa critica).
"Dogman"
Il concetto centrale e realmente interessante in Dogman è la gabbia. Ispirato alla storia vera di un ragazzino francese che a cinque anni è stato messo dentro a una di queste dal padre, il film è una grossa riflessione sulla prigionia. Douglas passa da una gabbia all’altra: la famiglia col padre iper-violento, la gabbia - intesa in senso letterale - in cui lo butta dentro quel padre insieme ai cani, l’orfanotrofio, la casa diroccata in cui lui vive sempre con i (parecchi) cani, e infine la gabbia per eccellenza, la prigione. Da una gabbia all’altra, dunque, creando un parallelismo tra le stesse. Parallelismo che è oro; si pensi a tutte le volte che si invoca la prigione come se fosse la soluzione alla violenza di genere, mentre Dogman chiarisce quanto le dinamiche di cattività che si trovano nelle relazioni violente sono le stesse che lo Stato riproduce con il carcere.
Viviamo in una grossa famiglia disfunzionale. Questa, la tesi del film. Niente a cui intellettuali femministe come Angela Davis non fossero già arrivate, ma è bello vedere quest’evidenza messa in scena sul grande schermo.
Il secondo elemento da sottolineare come ben riuscito in Dogman è l’estetica. Prendi Marilyn Monroe - l’abito rosa e i brillanti di Diamonds are a Girl’s Best Friend -, falla diventare una drag queen, dalle qualche anno in più, falla ingrassare, mettila su una sedia a rotelle e piazzale una buona quantità di sigarette in mano. Poi rendila matta come Joker, e a differenza di Joker falla pacificare con quello che le accuse di pazzia significano per la società (a “tu sei pazzo”, Doug risponderà “grazie”). Questa reinvenzione di Marilyn è ossigeno. Dopo il film Netflix di tre ore tratto da Blonde di Joyce Carol Oates che non solo non rendeva giustizia alle 1069 pagine del libro, ma soprattutto non la rendeva agli argomenti trattati - a partire dall’aborto - Dogman restituisce il simbolo-Marilyn alla sua grandezza. E questo è qualcosa di cui ringraziare Luc Besson.
Parlando di estetica, non si può non menzionare lo stile di Douglas. In una delle scene iniziali apprendiamo che al posto della scuola primaria ha potuto solo leggere riviste di moda; in ogni caso, i risultati si vedono. Doug rimbalza in ogni scena con un look più evocativo di quello precedente, dalla camicia con le rouches al bomber beige con interni tartan, simil-Harrington, un indumento di solito legato al mondo punk. Perfino le sue protesi alle gambe hanno stile
.Un’altra cosa che funziona molto bene è la recitazione. Il film è cucito su misura sull’attore protagonista, Caleb Landry Jones. L’avevamo visto negli ultimi anni nei panni dell’addetto ai cartelloni pubblicitari di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, ma il Guardian lo aveva definito già un decennio fa “un volto diafano e lentigginoso che passa facilmente dalla bellezza luciferina a un che di primitivo”. Che è esattamente quello che fa in questo film. La descrizione di Caleb Landry Jones da parte del Guardian anticipa due discorsi cruciali di Dogman. L’elemento luciferino, e l’idea del selvaggio. Partiamo da quest’ultima. Laura Pugno scrive, a riguardo: “Il selvaggio è deciso da noi, non esiste in natura, si crea nel momento in cui chiudiamo la porta di casa, definiamo un dentro e un fuori.” Questo è un tema cruciale in Dogman. Di nuovo abbiamo a che fare con una gabbia, quella delle definizioni. Cosa è selvaggio, cosa è animale, cosa è umano. Douglas prova a rompere questi recinti auto-definendosi: usa sia pronomi maschili che femminili, vive al margine di ciò che è legale, ribalta (almeno all’apparenza) la gerarchia cane-essere umano.
"Dogman"
Il protagonista di Dogman ha una sua filosofia, che ci racconta per tutto il film. Dice esplicitamente: «Credo nella redistribuzione dei beni». Nella sua vita questa non assume forme di lotta collettiva, a meno che non consideriamo (come suggerisce Luc Besson) i cani la sua collettività. Di fatto, comunque, occupa un palazzo e pratica svariati furti di beni di lusso. Non li vende, li usa per ingioiellarsi. Diamonds are a Girl’s Best Friend ha un suono più dolce se si tratta dei diamanti rubati a qualche miliardario. Di questo, a Besson dobbiamo dare atto.
Le credenze di Doug non si fermano qui: ci dice che “nessuno nasce mai delinquente” e che “cane mangia cane”. Rivendica l’homo homini lupus di Plauto. Poiché è così, dice, intanto coi carnefici non ci si lamenta perché “lamentarsi è pregare il diavolo”. In quanto consapevole già da piccolo dei rapporti di potere che governano la società, non ha neanche un briciolo di rancore nei confronti di sua madre, che non è riuscita mai a liberarsi di un marito profondamente abusante. Afferma piuttosto che la debolezza di lei è stato il suo difetto ma anche la sua fortuna: se in natura - ci dice - i meno forti vengono eliminati, tra gli esseri umani i deboli e i codardi trovano sempre il modo di sopravvivere. Lui in effetti è stato punito nella sommossa, nella ribellione. Non nel momento dell’accondiscendenza, ma in quello della forza. Come spesso è.
Paradossale il fatto che Douglas riesca a liberare sé e i cani chiamando le guardie, che poi mettono il padre e il fratello in un’altra gabbia, il carcere. Ci dice Dogman: siamo sempre il cane di qualcun altro.
"Dogman"
Un altro concetto ricorrente è quello di Dio. God, nella scritta fatta dal fratello maggiore, dalla gabbia si legge al contrario: dog. Cane, appunto. Il cane sarebbe dunque cerbero, opposto di dio e simbolo luciferino, contro una morale cristiana che dalla famiglia di Douglas viene usata come scusa per legittimare atti di estrema brutalità. Sarebbe. Ma non è.
Benché si giochi per tutto il film con questo simbolo (il diavolo, Lucifero, la ribellione), la risoluzione della trama è inspiegabilmente tradizionalista. E sì che qualcuno aveva provato a definirlo proprio così, Doug: «Tu sei el diablo, - gli viene detto, - e io ti rimanderò all’inferno». Alle accuse di essere il male incarnato, c’è il suo credere in un dio cristiano, anzi il suo identificarsi con lui.
Il cuore del film non è, purtroppo, la ribellione. È l’impossibilità da parte del regista (e sceneggiatore) Luc Besson di immaginare delle alternative alla società che conosciamo che non siano le seguenti, incarnate dal suo protagonista: una solitudine estrema, un altrettanto estremo sacrificio. Il solito, quello cristologico. Il martirio. Con tanto di chiesa davanti, e di ombra a forma di crocifisso, e un contorno di cani - a decine - attorno all’ennesimo prescelto. Reductio ad vittima. Come spesso accade, quando si decide di parlare di persone non binarie, con disabilità, e che sono uscite da situazioni di violenza domestica, da un punto di vista che non è quello di una di queste. Peccato, perché il finale riduce di molto la potenza del film e impone allo spettatore un ritorno al Padre, dopo averlo rifiutato per tutto il film in ogni sua forma.
Alcune delle riflessioni fatte in questo articolo (dal paragone tra carcere e famiglia patriarcale, alla citazione di Laura Pugno) vengono dalla lettura di un’intellettuale che dovrebbe essere di certo più conosciuta, e che di rompere gabbie s’intende: Filo Sottile. Nel libro Senza titolo di viaggio (Alegre, 2021), scrive in versi:
No, non mi do al martirio
ma diserzione.
"Dogman"
La diserzione è il lieto fine che speri ma a cui devi rinunciare quando qualcuno decide di fare film su categorie oppresse che evidentemente non incarna né conosce. Al suo posto trovi il martirio. Non è un caso se l’industria cinematografica continua a trovare più difficile immaginare la ribellione collettiva rispetto al sacrificio cristologico e solitario di alcuni singoli esponenti tra gli oppressi. (Si pensi anche al finale dell’ottimo Promising Young Woman).
Si dirà che Douglas non è solo, che ha i suoi cani. Il fulcro è in quel suoi. Kant diceva che le persone non sono uno strumento ma un fine. Il Douglas di Luc Besson non userà le persone, ma di certo usa i cani. Li strumentalizza, non si prende neanche la responsabilità di quello che fa fare loro: la attribuisce direttamente a Dio. Ancora più evidente la sua immaturità affettiva quando lo vediamo raccontarci come amore l’ossessione per una donna che è stata per lui la porta per immaginare una vita diversa: lei resta una porta - mezzo e non fine - non una persona da prendere per mano mentre la porta la varcate insieme, o la sfondate, se si tratta di una gabbia. In ogni caso e benché bisogni tenere a mente che quello rappresentato da Luc Besson non è nient’altro che un piccolo patriarcato (benché truccato da Marilyn Monroe e amico dei cani), Dogman resta un bel film. Confuso politicamente, ma un bel film.