Cinema

Harry, ti presento Francis

Mezzo secolo prima di “Megalapolis” Francis Ford Coppola regalava al cinema “La conversazione”

  • 11.07.2024, 08:26
  • 13.09.2024, 13:19
Francis Ford Coppola Cannes

Francis Ford Coppola sul palco al 77esimo Festival di Cannes

  • EPA/SEBASTIEN NOGIER
Di: Alessandro De Bon 

Tra le mascelle di Brando e la cavalcata delle Valchirie, Vito Corleone e il Colonnello Kurtz, New York e Saigon, la grandezza semplice del cinema di Francis Ford Coppola sta tutta in una conversazione. Anzi, La conversazione (The Conversation). Il film che Coppola aveva in testa dal 1966, ma su cui riuscì a far accendere i riflettori di un set soltanto dopo aver servito il jackpot alla Paramount con Il padrino (The Godfather, 1972). È il 1974, cinquant’anni prima di Megalopolis, ma soprattutto due dopo il Watergate e otto dopo Blow-up di Michelangelo Antonioni. Ed è da quella sceneggiatura che l’americano di Bernalda decide di trasferire il furto di privacy dalla pellicola di Thomas al nastro di Harry Caul, dalla macchina fotografica di David Hemmings al microfono di Gene Hackmann, un investigatore privato che mette il naso, o meglio le orecchie, dove non conviene: in una conversazione tra due in cui il terzo - lui - non c’è, sta zitto, ma ascolta. E sa. Adesso, sa.

La conversazione parte da Union Square, San Francisco, con un piano sequenza di tre minuti che lentamente fa piombare lo spettatore dai molti a lui, dal brulicare disordinato di una piazza alla precisa ossessione di Harry Caul; un movimento che tornerà identico a se stesso a fine film, migrando da quello spazio pubblico a un cesso privato, sotto al cielo prima e di fianco a un water poi, ma con la stessa mira: lui, Caul e la sua prigionia egotica. Restiamo però all’inizio, a qui primi tre minuti che lentamente si ficcano in Union Square. Tre minuti con cui Coppola ci dice già tutto: che la massa è un insieme di singoli, che voi siete uno di loro, che dovete ricordarvi di ascoltare (durante il film), ma soprattutto che qualcuno ascolta voi (nella vita). E poi lui, Harry Caul e il suo paradosso, l’investigatore con manie di persecuzione, l’impiccione infastidito dall’invadenza di un mimo - personaggio che, guarda un po’, non parla - il paranoico che si nasconde con un impermeabile simil-trasparente. Ecco La conversazione, un enorme film normale, una pellicola da un milione di dollari spesi sull’altare (di cemento) della migliore New Hollywood, quel periodo in cui il cinema classico americano ha cercato di riprendersi dopo i ceffoni presi da tv, Vietnam, minoranze e femminismo. Riuscendoci. Un film che trabocca di cinema pensato e pesato, d’artigianato audiovisivo dentro e fuori la sceneggiatura, scritto pensandolo in movimento e in ascolto. E a tal proposito, quale accompagnamento migliore del tema scritto da David Shire?

La conversazione è ascolto. E già potrebbe bastare in un società di relazioni tessute sul dire. È ascolto in termini narrativi - perché su quello è costruita la trama - ed è ascolto in termini audiovisivi, grazie al meraviglioso lavoro di Walter Murch, che ne ha curato sonoro e montaggio, facendo di ciò che sentiamo, e come lo sentiamo, un elemento essenziale del film e dell’esperienza cinematografica, come di recente ci è ri-capitato con La zona d’interesse di Glazer (The Zone of Interest, 2023). In La conversazione immagini e audio sono spesso disturbati e distorti perché così sta Harry Caul, disturbato e distorto, annodato a quella dannata conversazione; a quel che ha ascoltato, ma soprattutto a quel che non ha sentito - di nuovo il paradosso - ma teme di poter sentire, o peggio ancora di vedere. E così l’unico sollievo, per quanto ruvido e sincopato, è in un sassofono. Personaggio che, di nuovo guarda un po’ , non parla.

In una scena perfetta, in cui tempo cinematografico e tempo narrativo coincidono (7’), Harry Caul arriva denso di paranoie dalla compagna (Teri Garr), per una serata insieme. E lei, leggera e invaghita, in un Amen lo smonta. In calzini e vestaglia, pasteggiando a biscotti e vino rosso, con il sorriso e il disordine di un’amante inconsapevole, lo scopre e spoglia, lo legge ben oltre il concesso, lo interroga e spiazza, notando piccole buffe stranezze su cui in realtà si regge l’intera psiche di Harry. E lui, un compagno che nasconde il compleanno, annusa le tazzine vuote e resta in impermeabile anche a letto, non può far altro che andarsene. Ma ad abbandonarlo in realtà (ancora, il paradosso) è lei. Amy d’altronde, come tutte le persone che sono altro da lui, per Caul è di troppo, in mezzo. Come è in mezzo Stan (John Cazale, alla seconda interpretazione delle sue cinque in altrettanti film candidati all’Oscar) collega che parla troppo e lo distrae, e come è in mezzo Martin Stett (un giovane Harrison Ford) che lo vuole letteralmente fuori dai piedi.

Se La conversazione è Harry Caul, Harry Caul è Gene Hackmann, un quarantenne anziano praticamente perfetto. In quella che forse rimane la sua più grande interpretazione Hackmann riesce a vivere la paranoia del suo personaggio a tal punto da apparire distratto dal film stesso, doppiando il metodo Stanislavkij: perennemente attento alla sua distrazione, la direzione dello sguardo appuntita e sospesa, i gesti capaci ma impauriti, il fisico presente ma fragile, desiderato benché indesiderabile. In una potente scena-sintesi, mentre di nuovo un’amante cerca di indagarlo e scioglierlo - schiantandosi sulla sua totale mancanza di “qui e ora” - la macchina da presa indugia impietosa sul suo corpo in cravatta e mutande, steso su una brandina, e la cronaca è lasciata alla registrazione di quella benedetta conversazione di Union Square già sentita, ri-sentita e sentita di nuovo: “eccolo qua, mezzo morto su una panchina. E che fine hanno fatto il papà, la mamma e tutti i parenti che aveva?”. D’altronde quella conversazione non se ne sta mai zitta, mai; parlerà anche nell’ufficio del direttore (il terzo, o meglio il quarto incomodo), quando alla domanda di Caul “e adesso cosa gli farà”, il silenzio del direttore (Robert Duvall) è doppiato dal nastro: “ci ammazza se gliene diamo l’occasione”, scaraventando in un colpo solo addosso a Harry paranoia e senso di colpa, i segni particolari con cui Gene Hackmann è riuscito a iscrivere Harry Caul all’albo dei Philipp Marlowe e Eddie Valiant. L’albo dei detective, professionisti ma soprattutto uomini in difficoltà. Poliziotti senza pistola. Frustrazioni forse simili a quella di un regista che azzarda kolossal ricostruendo megalopoli, cinquant’anni dopo essere riuscito a girare un enorme piccolo film sfasciando un appartamento.

01:58

Coppola spiega la sua "Apocalypse Now"

RSI Shared Content DME 11.04.2019, 14:00

  • Steve Schapiro

Ti potrebbe interessare