Cinema

I film in concorso a Locarno

Una mappatura critica

  • 7 agosto 2023, 11:56
  • 14 settembre 2023, 09:03
76 Locarno Film Festival

Le recensioni dei nostri inviati, Alessandro Bertoglio e Moira Bubola

Animal - di Sofia Exarchou

Kaja ha lasciato un piccolo paese della periferia di Atene a 16 anni. Amava Madonna, voleva cantare e ballare. Approda così in uno dei più grandi alberghi costruiti su di un’isola greca dove i turisti si riversano in massa. Qui diventa animatrice, il suo lavoro è fatto di spettacoli e intrattenimento, ma anche di sfruttamento. Il suo corpo è esposto, toccato, desiderato, deve far sognare ed essere sempre compiacente con gli ospiti della struttura turistica. Sofia Exarchou racconta la sua terra sistematicamente spogliata della bellezza che la contraddistingue con un linguaggio cinematografico potente. Kaja e le sue giornate di intenso lavoro, le notti a base di alcool e locali notturni dalla musica martellante, incarna la terra greca, una terra imbruttita da una mercificazione senza tregua.

Ci sono scene che restano impresse per la tenerezza del punto di vista, ad esempio quando gli animatori si allenano sulla battigia. Il mare fa loro da sfondo. Vediamo i loro sforzi, la loro fatica per essere sempre in perfetta forma per gli spettacoli della sera. Un momento di sospensione, tranquillo. Vediamo le loro case, brutte, costruite in una zona periferica, lontane dallo scintillio kitsch degli alberghi. Le dinamiche del gruppo emergono con naturalezza, i nuovi componenti vengono accolti e alcuni di loro faranno di tutto per integrarsi, soprattutto una nuova ragazza che rispecchia la storia di Kaja. "Animal" vive di un’atmosfera crepuscolare, viene raccontata un’estate eppure il sentimento evocato è di abbandono tristezza e perdita. Si tratta di un lavoro importante per tutto quello che vuole dire; forse, alcuni elementi rimangano troppo ellittici, destabilizzano. Il film però proprio per questa sua indefinita sfilacciatura rimane nella mente e nel cuore. [M. B.]

Yannick - di Quentin Dupieux

Yannick è uscito nelle sale di tutta la Francia il 2 agosto, in contemporanea (quasi) col debutto locarnese. Non è una "prima volta", ma tutti coloro che portano come nome Yannick, il film lo guarderanno gratis.

Quella di Quentin Dupieux è una commedia efficace, semplice e sorprendente, che ci porta a scandagliare le problematiche legate alla passione (specie quando non c'è) per il proprio lavoro, la vita, le relazioni. Una scrittura incisiva e graffiante ambientata in un teatro -unità di luogo- e in una serata nella quale, nel bel mezzo della piéce "Il Cornuto", dalla platea si alza la voce di Yannick (lo straordinario Raphaël Quenard, da molti considerato l'astro nascente del cinema francese... e possiamo cap ire il perché) che interrompe la recita urlando verso il palco "Lo spettacolo non è affatto divertente! Ho p agato il biglietto per sentirmi bene e ora tu stai ingigantendo i miei problemi".

Utilizzando oggetti di scena minimalisti Dupieux riesce a creare interazione tra gli attori sul palco e il pubblico. Così il teatrino della vita e quello dell'arte vanno in cortocircuito. Per la prima volta Quentin Dupieux accetta di presentarsi in concorso ad un festival, e lo fa con un film breve (65 minuti) ma intenso e scoppiettante. Nel quale si ride in maniera caustica e a tratti dolorosa, perché si riflette ad ogni battuta, mentre ci si diverte. Un film che nasce su una idea semplice ma pregno delle problematiche di molti individui contemporanei: solitudine, non essere ascoltati, l'amore che viene e che va, le divisioni culturali e sociali, la violenza.

Battute perfette, tempi azzeccatissimi, insomma un vero spasso questo Yannick, che è stato girato interamente tra le mura di un vero teatro parigino, il Déjazet, nel 10° arrondissement. Ed è stato realizzato in segreto, con un budget ultra-limitato e prodotto a tempo di record nello stesso periodo in cui Quentin Dupieux lavorava a "Daaaaaali!" (che sarà a Venezia fuori concorso) [A. B.]

Manga D'Terra - di Basil Da Cunha

Svizzero di origine portoghese, classe 1985. Basil da Cunha era già stato in concorso a Locarno, nel 2019, con "O Fim do Mundo". E già allora ci ha portato a conoscere Reboleira, baraccopoli della periferia di Lisbona, abitata in prevalenza da immigrati di CapoVerde. Se nel primo film il regista ci raccontava la storia di Spira, in un film che parlava di resistenza alla modernità, di perdita dell'innocenza e di criminalità giovanile.

In Manga D'Terra, attraverso la protagonista Rosinha (interpretata da Eliana Rosa) ci parla più di speranza. Quella che ha spinto la giovane donna a lasciare CapoVerde per tentare di offrire ai suoi figli rimasti sull'isola (lei che è rimasta vedova) un futuro migliore, nonostante le difficoltà di distacco dalle radici. E quelle quotidiane, fatte di piccoli soprusi dei boss della comunità, della brutalità della polizia, degli ammiccamenti fin troppo espliciti dei maschi e, soprattutto, la precarietà della vita in una baraccopoli. Un luogo, Reboleira, che è a sua volta un personaggio vivente nel film.

L'abilità di Da Cunha nel dirigere gli attori, porta ad enfatizzare appunto quel barlume di speranza che muove le loro vite. E attraverso la solidarietà femminile, vero motore della storia, accompagniamo il percorso di Rosinha attraverso un racconto che si permette anche il lusso, piacevole, di farci tuffare nella realtà musicale capoverdiana, che differisce dai suoni tipici conformati e standardizzati della tradizione lusitana. [A. B.]

Nu aștepta prea mult de la sfârșitul lumii - di Radu Jude

Lo stile del regista rumeno Radu Jude è definito e sempre riconoscibile. Questo suo "Non aspettatevi troppo dalla fine del mondo" ricalca per temi ed estetica il lavoro premiato alla Berlinale con l’Orso d’Oro e presentato questa primavera a L’immagine e la parola: Sesso sfortunato e follie porno.

"Non aspettatevi troppo…" è una critica feroce, sboccata, politicamente scorretta nei confronti di una società rumena malata dove i lavoratori vengono trattati come carne da macello, le compagnie straniere dettano legge, i soldi non bastano mai e tutti pensano a fregare ed ingannare il prossimo. Il film si apre in una camera da letto vediamo una giovane donna alzarsi alle prime ore del mattino e imprecare contro la sveglia, è nuda e la sentiamo andare in bagno e fare pipì. Scende e si mette in macchina, lavora per Uber e le sue giornate non conoscono pause. La musica nell’abitacolo è sempre al massimo del volume, lei corre in un traffico caotico e aggressivo, insulta e viene minacciata. Ogni tanto si ferma e con il cellulare si riprende mettendo un filtro che la trasforma in un uomo: con queste fattezze scarica tutta la sua rabbia attraverso monologhi crudi e volgari. Si rimette alla guida e via verso la su altra occupazione: andare a riprendere operai che hanno subito infortuni sul lavoro. Qui la caustica ironia di Jude si esprime alla massima potenza perché lo spettatore sulle prime crede che questi video servano a denunciare i torti subiti, ma le cose non stanno in questo modo. Un film che è un’odissea di tre ore inframezzato da stralci di un film rumeno degli anni Settanta che aveva per protagonista una donna tassista. Altro elemento questo della poetica di Jude: lavorare con immagini d’archivio per far esplodere il racconto del presente. Siamo sicuramente al cospetto di un’opera cinematografica che coglie le esasperazioni di una società, quella rumena, allo sbando. La volgarità dei contenuti e non mi riferisco soltanto a quelli sessuali o corporali (la protagonista rutta e scoreggia) e la lunghezza delle scene, la ripresa delle croci funerarie al bordo della strada è estenuante, non sono soltanto disturbanti sono ridondanti. Mi veniva voglia di alzarmi e dire: abbiamo capito! Basta! Un’estetica votata alla libertà ma molto, per me troppo, grossolana. [M. B.]

sweet dreams.jpg

Sweet Dreams - di Ena Sendijarević

Siamo in Indonesia all’inizio del secolo scorso. Il film si apre su una battuta di caccia alla tigre. Chi impugna il fucile è un bambino guidato da un vecchio vestito di bianco. Il vecchio è Jan, olandese da anni a Giacarta. Assieme alla moglie è proprietario di una vasta piantagione di canna da zucchero. La regista Eva Sendjiarevic racconta la fine del colonialismo olandese scegliendo il punto di vista della giovane domestica che lavora nella casa. Si chiama Siti: serve, danza e soddisfa le voglie di Jan, il bambino che vediamo nella prima scena è frutto di questa relazione. Quando all’improvviso Jan muore, la moglie che non vuole tornare nella madrepatria e lasciare i suoi possedimenti scrive al figlio di raggiungerla. All’arrivo del giovane, accompagnato dalla moglie in procinto di partorire, si scopre che Jan ha lasciato la sua eredità a Siti. A questo punto si scatenano le mire rapaci dei famigliari che non possono accettare di perdere la loro fortuna economica.

Con uno stile cinematografico ricco ed esteticamente potente, anche la scelta dei quattro terzi enfatizza la bellezza degli interni della magione e i colori brillanti della giungla, la giovanissima regista riesce a catturare l’interesse del pubblico ed affascinare l’occhio del cinefilo per un uso calibrato delle luci e delle ombre, modalità espressiva questa che racconta anche della millenaria tradizione teatrale indonesiana. Una cura attenta per il dettaglio e una notevole capacità di dirigere gli attori rendono "Sweet Dreams" un’opera che riesce a distinguersi, soprattutto dal punto di vista visivo. Ogni inquadratura, anche se sempre impeccabile dal punto di vista formale, non è mai fine a sé stessa e porta con sé elementi narrativi importanti. Anche il finale con una sequenza onirica forse troppo manierista riesce ad essere suggestivo e perfettamente in taglio con la storia raccontata. [M. B.]

The Vanishing Soldier

The Vanishing Soldier - di Dani Rosenberg

Israele è uno Stato che vive sotto un continuo stato di pericolo, di minaccia. In "The Vanishing Soldier" di Dani Rosenberg lo percepiamo quando, al suono delle sirene della contraerea, anche in una città come Tel Aviv la gente si sdraia per terra in strada, corre nei rifugi, cerca di mettersi come può al riparo. Ormai è diventata un'abitudine quotidiana anche in una città che è sempre stata all'avanguardia, sia nel rispetto delle diversità, sia per il turismo senza stagioni.

In Israele il servizio militare non è solo un obbligo: è una dimostrazione di affetto per la patria e per le sue sfide di sopravvivenza. Un onore prima che un onere, che coinvolge entrambi i sessi.

Il film di Rosemberg ci catapulta nel presente di un 18enne, Shlomi, impegnato con i suoi commilitoni in una campagna militare a Gaza: lo vediamo allontanarsi dall'azione, nascondersi e fuggire, abbandonando il casco e rubando un'auto. Un gesto inaccettabile per la sua stessa madre, che dopo diverse peripezie Shlomi raggiunge mentre sta accudendo il marito in ospedale. Qui viene raggiunta dalla Polizia che indaga sulla scomparsa del ragazzo, che si crede sia stato preso in ostaggio. Il motivo che lo ha spinto a tornare a Tel Aviv, lasciando il fronte, è l'amore per la fidanzata, che sta per trasferirsi in Canada e che lui, oltre a convincerla a restare, vuole rivedere.

"The Vanishing Soldier" è l'ennesimo film di crescita personale che incontriamo in questo festival, ambientato in uno scenario di guerra continua che, come si diceva, prevede una totale assunzione di responsabilità da parte dei soldati, anche giovanissimi. Lo fa raccontandoci la scelta di Shlomi, soldato che potrebbe essere tanto un eroe (se tornasse sui suoi passi) quanto un traditore (se venisse scoperto). Per lui, nel suo bisogno di vita, di normalità, questi concetti sfuggono, così come le possibili conseguenze. Il panico e la scaltrezza lo accompagnano nel procedere verso il suo obiettivo, mentre lo spettatore vive queste sue emozioni contrastanti nello scenario di una città che, incurante dei missili in volo, vive, riempie i ristoranti e le spiagge.

"The Vanishing Soldier" ha, anzi avrebbe, tutti gli elementi per poter essere un ottimo film: peccato che la soluzione scelta da Dani Rosenberg per raccontarci il percorso del suo protagonista, derivi -anzi precipiti- verso la commedia facile facile, con gag anche ripetute e un finale un po’ banale. [A. B.]

La imatge permanent – di Laura Ferrés

La imatge permanent – di Laura Ferrés

"La imatge permanent", di Laura Ferrés è la storia di due donne che si incontrano per una casualità. La prima è Carmen, una direttrice di casting cinquantenne, che da anni ha lasciato la campagna per trasferirsi a Barcellona. Percorso che, per chi non è Catalano, non è sempre semplice, a cominciare dalla lingua, il dialetto, che costruisce a volte una barriera. La seconda è invece una irresistibile Antonia, venditrice ambulante di profumi che inventa lei stessa, e che colpisce Carmen per la sua fisicità e il suo aspetto. Per Carmen, infatti, il mondo si divide in due categorie: persone con la faccia da uccello e persone con la faccia da cane.

L'incontro tra le due è scoppiettante e ravviva (anche per le numerose battute che strappano una sincera risata) la parte centrale del film, che per stessa ammissione della regista in dibverse interviste, ha sempre pensato come una "commedia depressa". Ma non depressiva, anzi! Il bizzarro senso dell'umorismo di Carmen e il pragmatismo di Antonia, sono irresistibili.

Il merito sta proprio nell'interpretazione delle due attrici, debuttanti, María Luengo e Rosario Ortega, che si calano perfettamente nel canovaccio tessito da Laura Ferrés che ama particolarmente cimentarsi con non professionisti e lasciare che interagiscano sul set. C'è chi vede in questo un omaggio visuale al cinema di Kaurismaki, chi un modo fresco ed incisivo per introdurre, sottotraccia, una riflessione profonda sulla società spagnola (e catalana) e sulla politica del Paese. Una finalità ambiziosa, che "La imatge permanent" di Laura Ferrés riesce a raggiungere. [A. B.]

Essential Truths of the Lake – di Lav Diaz.jpg

Essential Truths of the Lake – di Lav Diaz

Tre ore e mezza di racconto strutturato in lunghi piani sequenza. Ogni dettaglio concorre a restituire le diverse sfaccettature di tutto ciò che è invisibile all’occhio umano. Il cinema del regista, sceneggiatore e produttore filippino Lav Diaz, ancora una volta, è un affresco potente della realtà che ci circonda.

Il protagonista di Essential Truths of the Lake è Papauran tenente di polizia che si batte contro lo stato di terrore instaurato dal presidente Rodrigo Duterte. Corruzione, violenza e omicidi sono all’ordine del giorno e sembra impossibile riuscire a ripristinare uno Stato di giustizia.

Papauran cerca una sua personalissima strada: ritrovare la fascinosa Esmeralda Stuard, giovane modella, attivista per i diritti delle donne e performer. Sono passati quindici anni dalla scomparsa di Esmeralda, è un caso irrisolto che ossessiona il tenente. Perderà i contatti con la sua famiglia, non risolverà l’enigma e trascorrerà i suoi giorni in una capanna sulle sponde del lago.

Le verità ultime del lago chiede molto allo spettatore perché i fili della narrazione si dipanano in maniera labile, i personaggi prendono la scena e poi svaniscono senza portare elementi risolutivi alla trama. Le immagini fisse del lago, battuto dal vento o ricoperto dalla cenere di un’eruzione vulcanica, durano per interi minuti, i piani sequenza sono lunghi e mai direttamente collegati all’impianto narrativo. Il bianco e nero che vira al grigio è spento e torbido. Lav Diaz immerge lo spettatore nelle immagini del suo film, lo costringe a tuffarsi nelle acque melmose e mai trasparenti del lago. Si arriva persino a sentire l’odore di queste acque stagnanti, immobili come la ricerca di Papuran che non arriva da nessuna parte per le molte verità intrise di altrettante menzogne. La critica internazionale acclama e premia il cinema di Lav Diaz. Non c’è dubbio che si tratti di un autore che ha saputo dare corpo alla sua idea di mondo. Ammetto però che ho fatto molta fatica a seguire l’intera vicenda, troppe le secche nelle quali si perde la storia e le immagini in bianco e nero restituiscono un sentimento di profonda perdita e tristezza, l’assieme è deprimente. Si tratta di un cinema pensato per la critica e gli studenti delle scuole cinematografiche, difficile vederlo in sala e riuscire ad avvicinarlo ad un pubblico vasto. Devo però aggiungere che l’esperienza mi ha avvolta, la mia mente è ancora abitata da quelle immagini e alcune sequenze ritornano ai miei occhi e continuano ad interrogarmi. Le verità ultime del lago si incide nella carne e non se ne va. [M. B.]

Stepne - di Maryna Vroda.jpg

Stepne - di Maryna Vroda

Una regista che indaga i temi della separazione e del distacco. Maryna Vroda arriva in concorso a Locarno con “Stepne” dopo essersi distinta a Cannes, dove ha ricevuto la Palma d’oro per il suo cortometraggio “Cross-Country”.

Stepne è il suo primo lungometraggio ed è ambientato nella campagna ucraina. È inverno e Anatoliy raggiunge la sua vecchia madre morente. La casa della sua infanzia vive una dimensione di abbandono, i ricordi del passato emergono da dettagli minimi. Attraverso le azioni quotidiane di Anatoly scopriamo il suo carattere: è un uomo introspettivo, gentile che ama disegnare, amorevole con la madre, con la donna che la cura e con il cane di casa. Le ore scorrono lente e Anatoliy, in attesa del fratello che dovrebbe raggiungerlo a breve, inizia a riflettere sulla sua vita. Lo spettatore intuisce questi movimenti dell’animo dagli sguardi, dai dialoghi che Anatoliy scambia con la madre sempre più debole. Quando entra in scena il fratello, uomo dalla personalità ingombrante, la sensibilità di Anatoliy emerge in tutto il suo attaccamento per il luogo dell’infanzia, i genitori e una giovinezza ricca di promesse ormai svanite. Maryna Vroda, in maniera distesa e meditativa, ritrae una personalità riflessiva e attenta, per dare corpo al sentimento della nostalgia. Nostalgia che passa ad esempio dal ritrovamento di un vecchio violino rotto che Anatoliy, contro ogni logica, prova a suonare. Lo vediamo poi prendere carta e matita per ritrarre la madre come era da giovane guardando una vecchia fotografia posata in una cornica sul tavolo. Attraverso riprese lente che insistono e si soffermano su vecchi oggetti, Maryna Vroda riesce a dare forma all’impalpabile struggimento che avvolge lo scorrere del tempo. È sicuramente una regista di cui sentiremo ancora parlare perché ha trovato, sin da subito, una voce e uno stile. [M. B.]

Patagonia - di Simone Bozzelli

Patagonia è il lungometraggio d’esordio del promettente regista italiano Simone Bozzelli, 29 anni, conosciuto dai più per aver diretto un video dei Måneskin. Anche se in realtà si era già fatto notare con alcuni cortometraggi (uno di questi, "Giochi" era in concorso a Locarno nel 2021), prima di avere la possibilità di cimentarsi con un progetto come questo.

Due i personaggi attorno a cui ruota il film: il giovanissimo Yuri (interpretato da Andrea Fuorto) ed il clown Agostino (incarnato da Augusto Mario Russi). La scintilla tra i due scocca durante una festa di compleanno per bambini, nella quale Yuri, che vive con l’anziana zia in un piccolo paesino abruzzese e l'aiuta nella macelleria di famiglia, rimane colpito dalla abilità e dal carisma magnetico dell'animatore. Che, immediatamente, offre al ragazzo una possibilità di fuggire dalla sua routine quotidiana, dalla sua vita senza sbocco e dalla timidezza che lo caratterizza: lo vuole come suo assistente.

Da qui comincia il viaggio verso una "Patagonia" che in realtà non è il luogo del Sudamerica, che i più conoscono di nome ma in pochi hanno visitato di persona, bensì la metafora di una vita e di un futuro diversi, possibili. Peccato che per il giovane Yuri il percorso passi attraverso l'instaurazione di un rapporto che lo legherà al compagno di viaggio e mentore in maniera ambigua e fin troppo profonda, mettendo in scena un gioco di sopraffazione e potere a tratti emotivamente soffocante. Da un lato il controllo e la punizione; dall'altro una sottomissione quasi vicina alla prigionia, fisica ed emotiva.

Un film spietato, un racconto di incredibile durezza, che ti spiazza e ti porta a riflettere sul senso di quando un amore o una amicizia sono malati e senza senso. Ma restano legami fortissimi. E complimenti ancora all'esordiente Simone Bozzelli, perfetto nel narrare la vicenda e nel dirigere i due attori protagonisti. Con debutti così, possiamo solo sperare bene. [A. B.]

Baan - di Leonor Teles

Baan - di Leonor Teles

"Baan", che possiamo tradurre con "casa" è l'opera prima della regista portoghese Leonor Teles. Protagonista centrale di ogni frammento del film è El (o semplicemente L) una ragazza dal fisico androgino, che non sa a che punto sta la sua relazione con il fidanzato, vive sola e lavora in un grande studio di architettura a Lisbona. Pochi gli amici, quasi tutti colleghi e in particolare i titolari dello studio con la loro famiglia. Ad interpretarla è una perfetta Carolina Miragaia, che la regista Leonor Teles guida con ottima riuscita nel suo muoversi all'interno della città con la vividezza che la camera a mano riesca a dare senza stancare lo spettatore.

La vita di El cambia il giorno in cui incontra la canadese di origine orientale Kay (o semplicemente K): tra di loro si crea subito una tensione magnetica, nella quale è K a guidare il gioco, catturando sempre più l'attenzione e le pulsioni di El. Fino al momento del "ghosting" (così si chiama, oggi, lo scomparire dalla vita di una persona, senza più rispondere a messaggi e chiamate e soprattutto senza preannunciarlo).

E' a questo punto che El inizia a palesare una sofferenza che è poi quello che il film vuole regalarci: la consapevolezza di una gioventù spesso più fragile di quello che vuole apparire; curiosità ma anche paura per un futuro che pare inafferrabile; l'incertezza dell'identità sessuale; la connettività estrema al mondo attraverso lo smartphone che diventa il portale d'ingresso (e di uscita) per tutte le emozioni.

Leonor Teles lo fa con stacchi di camera anche repentini, riprese di una Lisbona che potrebbe essere qualsiasi altra grande città; una fotografia notturna, ipersatura e molto accattivante. Unita alla musica che spazia dalla house agli anni '80. Anche per non escludere nessuna generazione, sospesa in questa girandola di precariato, distacco dalle radici, solitudine e bisogno di affettività. [A. B.]

Nuit obscure (Au revoir ici, n'importe où) - di Sylvain George

Il regista francese con la prima parte del suo progetto dedicato ai migranti era già stato lo scorso anno a Locarno. La 76esima edizione del Festival del Film ha voluto nel concorso internazionale il prosieguo del progetto. Nuit Obscure, au revoir ici, n’importe où segue le notti di un gruppo di ragazzi, alcuni minorenni, a Melilla. L’enclave spagnola in Marocco, confine e barriera di un’Europa, sognata e mitizzata, diventa teatro di un’umanità che resiste e si appropria degli spazi creando riti e abitudini. La cinta muraria della città autonoma, assieme alle navi cargo e ai tir in attesa di attraversare il Mediterraneo, sono altri protagonisti di un’odissea dei dimenticati. Il documentario, scegliendo un ritmo meditativo, ci introduce nelle ore infinite di chi sceglie di lasciare il proprio paese, il Marocco, e andare a costruirsi un futuro migliore. Nello sguardo del regista non c’è paternalismo e nessuna retorica mentre filma i ragazzi che si preparano da mangiare dopo aver perlustrato i contenitori dei rifiuti, oppure quando li vediamo allestire, per la notte, un letto su di un albero. Ammiriamo il loro coraggio e la loro voglia di essere attori del loro destino. Sono dei combattenti dai corpi ricoperti di cicatrici, non meritano la nostra pietà soltanto perché vivono ai margini. Il linguaggio cinematografico adottato collima con lo sguardo attento e partecipe del regista, un punto di vista il suo volto a restituire dignità e valore a chi il destino ha fatto nascere nella parte meno favorita del mondo. È sicuramente questo il merito maggiore di un documentario di difficile accesso che chiede al pubblico pazienza e attenzione. [M. B.]

El auge del humano 3 - di Eduardo Williams

Eduardo Williams, detto "Teddy", è argentino d'origine ed ha lavorato in tutte le parti del mondo. Un regista ma anche un artista visuale: da qui la complessità delle sue scelte: lavori sono curiosamente scollegati a qualsiasi tipo di vincolo, geografico e formale. A Locarno 2023 arriva nel concorso principale, portandosi il fardello del Pardo d'Oro, vinto nella sezione cineasti del presente, anno 2016, con il suo primo lungometraggio, "El auge del humano" (The Human Surge/L'ondata umana).

Il suo film in concorso, "El auge del humano 3" sembra in maniera subliminale volersi ricollegare alla gloria del predecessore, almeno per quanto riguarda il titolo e l'attitudine sperimentale (Curioso che la parte 2 non esista...). Ma il Concorso Internazionale non è quello dei Cineasti del Presente.

Per girare questo suo ambiziosissimo lavoro, ha utilizzato una videocamera a 360 gradi: questo spiega le deformazioni nelle immagini, gli scatti nelle inquadrature, quelli che apparentemente paiono difetti, ma in realtà sono necessità tecniche piegate al volere dell'autore. Anche per questo, nel film si sentono dialoghi senza che nessuno dei personaggi (inquadrati a volte in distanza alte volte in dettaglio) stia parlando. Una sensazione straniante che complica ancora di più la fruizione generale del film.

Possiamo etichettarlo come film sperimentale, che porta dentro di sè anche una piccola componente di fantastico e fantascientifico, ancora più spiazzante per chi vuole trovare un senso a un qualcosa che forse il senso non vuole e non deve averlo. Come il percorso dei protagonisti di questo viaggio, onirico e surreale, in un mondo dove pioggia e vento sono costanti, e si incrociano lingue, razze e discorsi di ogni tipo. Bisogna Solo lasciarsi andare allo scorrere delle immagini oppure semplicemente fare un passo indietro. [A. B.]

Lousy Carter - di Bob Byington

Lousy Carter - di Bob Byington

Unico film americano della selezione del Concorso internazionale, “Lousy Carter”, con una scrittura tagliente che mette in risalto l’ipocrisia di una società votata all’individualismo, dipana gli ultimi sei mesi di vita del protagonista che dà il titolo al film. Lousy è un uomo senza qualità, un bambinone che si barcamena tra l’insegnamento e velleità artistiche di ritornare sull’onda come creatore di film d’animazione. Quando il medico gli restituisce il referto degli ultimi esami, un tumore se lo porterà via in sei mesi, Lousy non sa proprio come reagire. Non ha nessun ultimo desiderio, si confida con la ex moglie ormai refrattaria a qualsiasi emozione, ne parla con il suo collega e migliore amico e viene accusato di essere pigro, cerca di recuperare il rapporto con la vecchia madre senza successo. La giovane studentessa che all’ultimo momento ha raggiunto il suo corso, sembrerebbe portare una nota luminosa, ma così non sarà. Tutto scorre come se la vita durasse all’infinito e anche le sedute dallo psicanalista junghiano non risolvono nulla del pantano emotivo che tiene in scacco il protagonista.

Bob Byington, dopo aver ricevuto nel 2012 il premio della giuria per Somebody up there likes me, torna a Locarno con un registro poco in sintonia con il concorso. La sua commedia amara si sarebbe vista volentieri in Piazza Grande e avrebbe coinvolto il pubblico. Nella selezione ufficiale non spicca perché non presenta nessun tipo di novità formale e di linguaggio, il discorso e il tono sono derivativi: tanto cinema indipendente americano ci ha raccontato queste storie minimali che racchiudono l’essenza di un popolo rimasto bambino e incapace di slanci emotivi autentici. [M. B.]

Ti potrebbe interessare