Quando Hollywood non era che il nome di un quartiere polveroso, sulla East Coast c’era chi si sforzava di prendere il cinema sul serio. Tra questi un attore teatrale che, come tutti i suoi colleghi, aveva sempre disprezzato la settima arte. Nei primi del Novecento, il cinema era del resto l’intrattenimento destinato a coloro che non potevano permettersi un biglietto per il teatro, uno strumento di corruzione delle anime pie, come lo definivano i benpensanti, nonché l’ultimo approdo per i teatranti falliti. Si dà il caso che l’attore di cui sopra, in condizioni finanziarie a dir poco disperate, si rivolse a due colleghi che gli consigliarono di provare col cinema. La sua risposta fu netta: “Perderò credibilità come attore tra la gente di teatro se mi vedono in un film.” Per fortuna, David Wark Griffith, quella credibilità non se l’era mai guadagnata.
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Griffith aveva assistito al suo primo spettacolo cinematografico nel 1898. Forte della presunzione che solo un ventitreenne può avere, lo aveva giudicato “stupido, noioso, imperdonabilmente tedioso. Non fu in alcun modo utile e lo trovai tempo sprecato.” Dieci anni più tardi, quello strumento barboso si sarebbe trasformato nella sua più grande fortuna quando, nel tentativo di piazzare una propria idea agli Edison Studio, si vide assegnare un ruolo d’attore. Alla Edison non dovettero apprezzare molto la performance, ma visto che si era ormai macchiato il curriculum, non ricevendo altre offerte dalla produzione si rivolse alla Biograph. Dopotutto, Griffith aveva constatato che il ruolo d’attore cinematografico “non era poi così male: cinque dollari per cavalcare un cavallo a Fort Lee in una splendida giornata di primavera.” Sfortunatamente, anche alla Biograph non ne uscirono pazzi, ma invece di rispedirlo a casa provarono a verificare se dietro la cinepresa funzionasse meglio che davanti. Griffith non aveva alcuna intenzione di passare alla regia, ma privo di alternative concrete filmò la sua prima pellicola. The Adventures of Dollie (1908) costò 65 dollari e non fu nulla di rivoluzionario, ma ebbe un successo tale da richiedere la stampa di venticinque copie: dieci in più rispetto al record personale della Biograph. Il regista stava muovendo i primi passi verso un nuovo linguaggio, convincendo chiunque che il cinema, da “invenzione senza futuro”, si sarebbe trasformato in un’industria.
Per il primo risultato non servì attendere molto. Già in The Fatal Hour (1908) Griffith iniziò a sperimentare il montaggio parallelo. Una tecnica che alcuni addetti ai lavori giudicarono di difficile comprensione per il pubblico, costretto a passare da una narrazione all’altra, ma che Griffith difese paragonandola al modo in cui Dickens raccontava le proprie storie, ovvero saltando da un personaggio all’altro. Aiutato dai grandi maestri del racconto e dai capolavori della letteratura, il cinema si trasformava così in un linguaggio complesso e articolato, nel quale scena e inquadratura avrebbero presto smesso di essere sinonimi. Fu per raggiungere il secondo obiettivo che servì del tempo, perché dalle prime esperienze dietro la macchina da presa al film che avrebbe rivoluzionato il mondo dell’intrattenimento sarebbero trascorsi sette anni. Sette anni nei quali Griffith, trasferitosi in California, diresse decine di pellicole e realizzò il primo film girato a Hollywood, permettendo ad attrici come Mary Pickford e Mabel Normand di entrare nel grande pantheon delle dive.
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“Ho comprato un libro di Thomas Dixon intitolato The Clansman. Lo userò per narrare la Guerra Civile Americana. Non è mai stata raccontata accuratamente nei libri di storia.” Che Griffith fosse ambizioso era ormai risaputo ai produttori che gli avevano dato fiducia, ma quando Harry Aitken si vide proporre l’idea di un colossal tratto dal testo di Dixon dovette pensare che il suo regista di punta fosse impazzito. Solo l’autore chiedeva 25 mila dollari per i diritti del libro, mentre la produzione ne sarebbe costati almeno 40 mila. La cifra spaventò molto Aitken che, rivolgendosi al fratello, disse: “Griffith è un tipo brillante, ma dobbiamo trattenerlo, Roy, altrimenti ci distruggerà.” Nascita di una nazione (1915) era però ormai destinato a entrare nella storia. I costi lievitarono tanto che Griffith si preoccupò di recuperare personalmente altro denaro, le giornate di ripresa sembrarono non finire e, ossessionato dal realismo, il regista mise più volte a rischio la vita degli attori. Quando chiese al suo esperto cosa sarebbe accaduto se un’esplosione avesse ferito un attore, il tecnico lo rassicurò: “Supponiamo che qualcuno venga ferito. Non molto: un piede saltato per aria o qualcosa del genere. Quello che devi fare è correre subito dove si trova e fare delle belle immagini, perché ti assicuro che saranno un capolavoro!”
E così accadde, perché sebbene il budget superò i 100 mila dollari, l’entusiasmo del pubblico che si catapultava nelle sale convinse le banche americane che il cinema poteva essere un buon investimento. La vecchia Hollywood si stava trasformando, Edison e la Biograph iniziavano a cedere il passo alle future major e Griffith, forte dei risultati di Nascita di una nazione e desideroso di ripulirsi dalle accuse di razzismo rivolte al suo capolavoro, si preparava a girare il film che lo avrebbe condotto a un lento declino. Malgrado Intolerance (1916) avrebbe influenzato per anni la cinematografia russa ed europea, la pellicola si rivelò un disastro economico. Con il fallimento della Triangle Film Corporation di Harry Aitken, fu Adolph Zukor ad arruolare Griffith che, alla ricerca di indipendenza, fondò con Charlie Chaplin, Mary Pickford e Douglas Fairbanks la United Artists. Da qui avrebbe diretto ancora numerosi film, ma nulla di comparabile all’impresa che lo aveva eletto “padre del cinema americano.”
Charlie Chaplin
RSI Cultura 07.03.2022, 01:00