Cinema

It Ends with Us: una storia d’amore e l’altra di violenza, o due storie di violenza? 

Le polemiche non colgono il punto veramente problematico del film tratto dal bestseller di Colleen Hoover 

  • 18 settembre, 17:25
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Blake Lively e Justin Baldoni in It Ends With Us

  • SONY PICTURES ENTERTAINMENT
Di: Valentina Mira 

Prometteva lacrime, prometteva batticuori. È riuscito a far storcere più di un naso.

È It ends with us, il film tratto dall’omonimo bestseller di Coleen Hoover ispirato alla storia vera della sua famiglia. Non si parlerà del libro, qui, ma solo della sua trasposizione cinematografica, delle polemiche che ha suscitato e della veridicità maggiore o minore delle stesse.

Come per il romanzo, si poteva presupporre che il punto di forza corrispondesse al punto di debolezza, ma che l’intento divulgativo facesse perdonare i difetti della storia. Il potenziale di un prodotto mainstream che affronta discorsi delicati ma onnipervasivi come la violenza di genere non è sottovalutabile, e talvolta il risultato è migliore di prodotti con aspirazioni alla radicalità, che però non sanno parlare la lingua di tutti.

Si era partiti quindi con un potenziale specifico. E qualcosa si salva della vituperata campagna di marketing attorno al film. Resta sorprendente che Blake Lively, attrice protagonista e produttrice, intervistata su cosa vorrebbe che restasse di It ends with us, abbia dato una risposta che ha a che fare con analisi politicamente molto più avanzate in termini di femminismo di ciò che siamo abituati a vedere destinato al grande pubblico; ha affermato infatti che quando si subisce una violenza non si è per forza “vittime” o “survivor”, che si è invece persone a tutto tondo e che non ci si deve identificare con qualcosa che si è subìto, non importa quanto sia durato e quanto abbia fatto male. È un’analisi inattesa, veritiera, di fatto ottima.

Detto questo, le polemiche hanno riguardato una supposta diatriba tra il regista e co-protagonista Justin Baldoni e la stessa Lively. Lei è accusata di aver trattato la promozione del film senza rispetto per l’argomento, di aver parlato di capelli e vestiti a fiori nello stesso periodo, di non essersi improvvisata attivista: cosa per cui in realtà ci sarebbe da ringraziare, perché racconta di una forma di rispetto per il proprio ruolo, per ciò che si conosce o meno, e quindi per il pubblico. D’altro canto, Justin Baldoni ha deciso di parlare di violenza di genere, divulgare numeri gratuiti da chiamare, e affini.

Non si entrerà nel merito della polemica, salvo ricordare che la personalizzazione di un problema sistemico non produce risultati positivi ma capri espiatori e simboli, idoli e altari su cui bruciarli o verso cui genuflettersi. La violenza di genere è troppo radicata e diffusa per poterci permettere dibattiti su chi sia buono e chi cattivo tra Blake Lively e Justin Baldoni.

C’è stata un’altra critica, più matura, riguardo l’assenza di “trigger warning”: comunque la si pensi, e benché il film non sia particolarmente impressionante (ma è soggettivo), una maggiore chiarezza sul fatto che non sia il racconto di una storia d’amore ma di violenza sarebbe stata utile. Non sono però questi gli appunti a It ends with us che la sua visione ha suscitato in chi scrive, che purtroppo ha un’opinione cinica riguardo la richiesta di trigger warning: la vita non te li pone davanti. E di certo la vita è più dura, per la maggior parte di noi, di It ends with us. Ciò non toglie che le persone che hanno lamentato assenza di chiarezza abbiano ragione, e che quello che urta la sensibilità di tanti vada ascoltato.

Il punto del film è che c’è poca anima. Cosa che non lo accumuna al libro, che ha altri difetti ma non questo. Poca anima, molta semplificazione. Lui (l’abusante) è una red flag con le gambe: entra in scena calciando una sedia, invadendo lo spazio di lei, contraddicendosi due volte in trenta secondi; lei gli fa tante domande per scardinarlo, lui è chiuso e non ha la stessa empatia, né curiosità nei suoi confronti. Fin qui, comunque, il tutto è mediamente plausibile. È lei, il personaggio interpretato da Blake Lively, che non si limita a essere ingenua e ad aver appreso dalla figura materna delle modalità che la fanno incastrare troppo bene con un uomo violento: non ci gireremo attorno, Lily è stereotipicamente scema. Si chiama “Lily Bloom” (“Giglio che sboccia”), vuole fare la fioraia, ma soprattutto sproloquia sull’“amore e la poesia dei fiori” senza dire niente di sensato a riguardo. Andando oltre questo aspetto, comunque poco rispettoso del tipo di donna che si vuole rappresentare, ci sono troppe dinamiche problematiche per essere davvero un film interessato a raccontare bene la violenza di genere. C’è lei che continua a dirgli di no ma intende sì, finché non gli dice un no che era davvero no: questo confonde le idee agli spettatori su cosa sia davvero consenso. Perché Lily vive con senso di colpa il suo desiderio? Se vuole stare con lui (e nella prima parte vuole), perché ritiene che il corteggiamento le riservi solo il ruolo di chi si ritrae, proprio come una preda? Nella scena più dura, un tentato stupro, è chiarissimo il suo no, ma prima? Troppo confuso e retrogrado per sposare la cultura del consenso.

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Patriarcato e violenza di genere

Laser 12.03.2024, 09:00

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Ma il vero problema del film è il personaggio di Atlas. Atlas è l’uomo con cui costruire un rapporto sano, o almeno così ci viene presentato. Viene dal passato di Lily, era un homeless nonché il suo primo amore, un amore mai finito, semmai interrotto dalla violenza patriarcale della famiglia di lei. Lui diventa un marine, si emancipa, e come per magia - come se l’esercito fosse un corso di transfemminismo - quando torna (ora fa lo chef) rappresenta la risposta salvifica al rapporto violento di lei. Un’àncora di salvezza. Peccato che entrare nel bagno delle donne senza consenso sia un atto violento, una violazione dei confini personali e collettivi, poco importa se motivato da nobili intenti da salvatore o dalla voglia di fare del male a qualcuno. Il messaggio sembra essere: trovatene uno che non ti picchi, ma che non si faccia problemi a picchiare il tuo uomo se quest’ultimo picchia te (e tu non gli hai chiesto di farti da cavalier servente). Quali sono le caratteristiche di questo amore sano? Deve averti regalato un cuore di quercia come Atlas, deve picchiare solo gli uomini, deve essere stato un marine? E l’uomo violento ha sempre un passato eccezionalmente tragico come quello del nostro protagonista, che ha ucciso per sbaglio suo fratello con una pistola che riteneva finta, o può essere e di solito è una persona molto, molto comune?

Una certezza ce l’abbiamo: Lily comprende tutti e tutti redime. Dà alla figlia che avrà con l’uomo violento il nome del fratello morto, lui si commuove, con un discorsetto lei gli fa capire che devono lasciarsi. Chiede il divorzio, di fatto, a un uomo che ha tentato di stuprarla e l’ha picchiata più volte, il giorno del suo parto, dopo avergli messo sua figlia in braccio. Ecco: se si dovesse dare un consiglio alle donne è di non avere discussioni del genere con una bambina appena nata nella disponibilità fisica ed emotiva dell’abusante.

Il messaggio del film - la parte buona, quella presa fedelmente dal libro - era che si possono spezzare i cicli tossici, e le lezioni sbagliate apprese in famiglia si possono dismettere, benché con difficoltà, a volte con dolore. Anche questo messaggio, riassunto nel titolo (It ends with us, “Finisce con noi”), viene svilito nella traduzione in italiano e diventa: “Siamo noi a dire basta”. Nel libro e in parte nel film i cicli tossici li spezzavano tutti, non solo Lily e di certo non solo le donne. In traduzione ritorna tutto alla retorica da spot istituzionale, e cioè nell’imperdonabile rivittimizzazione. Il sottofondo di un messaggio come “siamo noi a dire basta” è “se non l’hai detto è colpa tua”. Forse su questo argomento sarebbe stata più valida la proiezione di una scritta sul muro che ha fatto il giro del mondo, e che resta il discorso su cui lavorare: c’è scritto “proteggi tua figlia”, è cancellato con una riga nera e corretto in “educa tuo figlio”. Educare entrambi, certo. Ma il focus non può rimanere sulle donne, e sulla loro iper-responsabilizzazione.

Siamo noi a dire basta, dicono: e diciamo basta anche alla retorica che colpevolizza chi “basta” l’aveva detto, ed è stata uccisa esattamente per questo motivo.

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Very long, very short

Charlot 15.09.2024, 14:35

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