Cinema

Joseph Losey

Un maestro del cinema ritrovato

  • 11 novembre 2022, 11:14
  • 8 maggio, 11:33
Joseph Losey
Di: Maria Chiara Fornari 

Tra gli anni Sessanta e Settanta era considerato un maestro del cinema, oggi pare quasi caduto nell’oblio. Il suo nome è pressoché sconosciuto ai più e rare sono le occasioni di poter vedere i suoi film. Eppure la critica ancor oggi lo riconosce come uno dei più originali registi anglo-americani del dopoguerra.

Joseph Walton Losey III è nato nel 1909 a La Crosse, città del Wisconsin sulla riva orientale del Mississippi ed è morto all’età di 75 anni, nel 1984, a Londra, lì dove, dopo diverse peregrinazioni esistenziali e artistiche, aveva deciso di fermarsi.
Cresciuto, con una “rigida educazione puritana”, in una tipica famiglia abbiente e protestante americana, dove la lettura della Bibbia è un’abitudine quotidiana, Losey ha raccontato di essere stato in qualche modo sensibilizzato al vecchio continente fin da piccolo sia per la forte presenza di emigrati europei nella sua città, che, in famiglia. La nonna aveva origini tedesche con la zia, che parlava francese, leggeva i classici in originale. A 15 anni fu la volta di “Du côté de chez Swann”, il primo volume della Recherche du temps perdu di Marcel Proust. Una lettura che gli apre un mondo e che un po’- a noi oggi - appare come fatale a Losey, almeno quanto lo fu la madeleine per Proust.

La cittadina americana sta presto stretta al giovane Losey e a salvarlo sono le letture dei classici, americani e soprattutto europei: Mark Twain, Dickens, Dumas, Balzac disponibili nelle biblioteche cittadine. Intraprende studi di medicina, ma molto presto è attirato dal mondo del teatro.
“Scelsi il teatro senza avere un’idea ben precisa di quello che volevo fare; ero preoccupato soprattutto di trovare me stesso”.
Teatro è uguale a Broadway, New York. Vi arriva nel 1930 e si arrangia con qualche lavoretto, scrive recensioni di teatro e riesce a realizzare la sua prima regia teatrale a Broadway.

Il ragazzo dai capelli verdi

L’Europa chiama
In una lunga intervista che rilasciò ad Aldo Tassone (in: AAVV, Senza re e senza patria, Il Castoro, 2009) Losey racconta che nel 1926 quando esce “Fiesta” di Hemingway rimane incantato dalla storia di Robert Cohn, l'americano che espatria in Europa. Con lo scopo principale di studiare il teatro tedesco, anche lui decide di andarsene e tra il 1928 e il 1935 visita l’Inghilterra, la Francia, la Germania e la Russia. In Russia segue le lezioni di regia di Sergej Ejzenstein e stringe amicizia con il regista russo Vsevolod Mejerchol’d. In Germania studia con Bertolt Brecht, a Londra conosce l’attore Charles Laughton che diventa suo grande amico e con il quale realizzerà una memorabile messa in scena di “Galileo” di Bertolt Brecht (nel 1975 la stessa versione diventerà un film con Chaim Topol). E l’incontro con Brecht diventa fondamentale per la sua formazione e per la sua crescita artsitica:
“Le conversazioni che ebbi con lui - sotto sotto era un romantico, inconfessato, come me – influenzarono enormemente il mio lavoro sia nel teatro sia nel cinema, più che le lezioni che seguii di Ejzenstein, un autore che sentivo troppo lontano dalle mie corde”.
“… la sua cura dei gesti e dei movimenti, la fludità della composizione, l’economia dei mezzi, il gioco dei contrasti. Quante cose ho imparato da lui…“


Hollywood e il maccartismo
Quando si ricorda la carriera cinematografica di Losey non si nasconde che è stato uno dei registi più illustri vittima del maccartismo, la persecuzione politica che lo costrinse a lasciare Hollywood. Di fatto negli anni Cinquanta Losey si trasferisce in Europa dove, soprattutto nel Regno Unito, gira la maggior parte dei suoi film.
Il suo primo film britannico è “La tigre addormentata” (1954), un thriller poliziesco noir, primo di una lunga serie di film con Dirk Bogarde. Film per il quale Losey è costretto a usare lo pseudonimo di Victor Hanbury, perché star come Alexis Smith e Alexander Knox temevano di essere a loro volta inserite nella lista nera di Hollywood se si fosse saputo che avevano lavorato con lui.

“C’era una mentalità infetta, e si sa che la paura trasforma le persone - anche gli amici – in delatori. Come scrisse poi Lilian Hellman, quella fu davvero “un’epoca scellerata””.

Autodefinitosi “marxista romantico” Losey fu un attivo e lucido lettore della sua epoca e non gli mancarono mai le parole per esprimere il suo punto di vista sul sistema politico e sociale:
Viviamo in una società dove regna il cinismo (salvare la pelle!), la paura, e l’indifferenza verso il prossimo. In Cile e altrove la Cia ci ha dato degli esempi eloquenti… Non voglio passare per profeta di guai, ma credo sinceramente che il capitalismo non possa salvarsi; nei prossimi cinque o dieci anni o diventeremo socialisti o fascisti, oppure saremo tutti morti”.


Nel film del 1991: “Guilty by Suspicion” diretto da Irwin Winkler (con Robert De Niro e Annette Bening) compare anche un certo Martin Scorsese che interpreta il regista Joe Lesser costretto a emigrare in Gran Bretagna dopo le accuse mosse dall'HUAC (House Committee on Un-American Activities). La storia di Joe Lesser è quella di Joseph Losey e il riferimento è alla persecuzione maccartista che ebbe a subire.

Una filmografia che spazia tra i generi
"Un artista è un testimone inquietante, uno che rappresenta le contraddizioni e che rifiuta di sottomettersi, di sclerotizzarsi. È un seminatore di dubbi: se non produce qualcosa di nuovo che creatore è?”
Un po’ perché regista curioso, che ama mettersi in gioco, un po’ perché rigetta il ripetere se stesso e teme di annoiarsi, Losey è consegnato alla storia come un cineasta che ha saputo realizzare film dei generi più vari, una cinematografia non classificabile in un’unica categoria di stile e genere.

Monica Vitti, Roma 1966

RSI Cultura 09.11.2022, 10:23

Nel suo periodo statunitense, prima della “caccia alle streghe”, si esprime principalmente con film dalla chiara impronta noir. Con eccezione per il “Il ragazzo dai capelli verdi” (1948), opera che si può dire anticipi il genere fantasy; la storia di un bambino confrontato con la propria diversità, un orfano di guerra che una mattina si sveglia con i capelli verdi.
Tra il ’50 e il ’51 i noir più noir: “Linciaggio”, “Sciacalli nell’ombra”, “La grande notte” e “M” , dove il remake del film di Fritz Lang palesa una forte tensione verso la lettura psicanalistica della storia del mostro di Düsseldorf. “Eva” (1962) sta tra il noir e il thriller psicologico ed è tra i film più amati da Losey. Riprese sofisticate, disseminate di specchi che riflettono le immagini dei protagonisti, raccontano l’erotica attrazione ossessiva di uno scrittore per una prostituta, la perfetta femme fatale interpretata da Jeanne Moreau.

I toni si fanno più leggeri con la curiosa parodia del cinema di spionaggio di “Modesty Blaise” (1966) dove la straordinaria Monica Vitti veste i panni di una impeccabile agente segreta. Segreta almeno quanto 007, ma dotata, oltre che di licenza di uccidere, di un magico e assolutamente benefico femminile intuito.
Va detto che le riflessioni sul ruolo della donna nel mondo che cambia è tema che cattura l’interesse di Losey. E fra i molti efficaci ritratti femminili vanno per forza citati quelli restituitici dalle interpretazioni di Glenda Jackson (affiancata da un impeccabile Michael Caine), protagonista della storia asfissiante e solitaria di “Una romantica donna inglese” e di Isabelle Huppert in “La truite” (1982), nella parte di una controversa ragazza di campagna che fugge in città, fa carriera e si trasforma in una fredda cacciatrice di uomini.
E a parlare sono soprattutto, come sempre in Losey, le sue storie, spesso attinte dalla letteratura e le inquadrature ravvicinate e studiatissime (a volte Ejsenstein sembra aver lasciato il segno), le sue immagini doppie, tra specchi, profondità di campo (care a Jean Renoir, suo maestro) e piani sequenza per mettere la realtà più a nudo.
Va detto che l’affrontare con coraggio i vari aspetti dell’universo femminile confrontato con la famiglia, i valori patriarcali di una società che vuole cambiare, valsero a Losey la facile etichetta di “regista femminista”.

Joseph Losey, Cannes 1976

RSI Cultura 18.11.2022, 16:41

Il sodalizio con Harold Pinter lo accompagna nel dramma borghese e lo fa avanzare verso lo sviluppo del genere assai moderno del thriller psicologico. Nel 1963 ne “Il servo”, il film più significativo di Losey dove affronta in chiave domestica e borghese, ma con toni arguti e pungenti, i temi che più ama: i contrasti tra le classi sociali, il rivolgimento dei ruoli e i giochi di potere tra i sessi.
“È un film sul servilismo, sulla depravazione. Il servo racconta la storia di una sottile inversione di ruoli all’interno di una classe tra un gentleman decadente e un “gentleman’s gentleman” (il servo)”.

Temi ripresi in “L’incidente” (1967, Gran premio della regia a Cannes) che racconta la repressione istituzionalizzata delle pulsioni sessuali nel microcosmo universitario di Oxford. Per finire con il confrontarsi con il film in costume, nel “Messaggero d'amore”, Palma d’oro a Cannes nel 1971.
In “Mr Klein”, del 1976, Alain Delon e il suo doppio fanno i conti con l’antisemitismo nella Parigi occupata. Un film che ricevette due César: miglior film e miglior regia.
Il melodramma non manca tra i generi affrontati da Losey, ma in musica. È il Don Giovanni di Mozart, su libretto di Da Ponte, che ispira il regista, che da totale inesperto di opera lirica confeziona la più straordinaria fusione tra teatro d’opera e cinema mai realizzata.
Lontano dall’essere, come aveva realizzato seppur magistralmente Bergmann per “Il flauto magico”, una ripresa cinematografica della rappresentazione teatrale dell’opera, Losey affronta con successo una sfida: un vero e proprio matrimonio tra opera e cinema. Un successo indubbiamente raggiunto grazie alle indubbie doti attoriali di cantanti come Ruggero Raimondi e dalla guida musicale di Lorin Maazel, ma soprattutto dalle brume lagunari di una scenografia alloggiata nei suggestivi spazi architettonici della villa vicentina La Rotonda di Andrea Palladio.

Ruggero Raimondi in:"Don Giovanni" di J.Losey (1979)

Ruggero Raimondi in:"Don Giovanni" di J.Losey (1979)

Tanti generi una sola costante nelle opere di Losey: il non desistere mai dall’esprimere un messaggio di critica sociale, nelle opere più esteticamente raffinate e stilisticamente complesse come in quelle più leggere, fantastiche e autoironiche. Così con un coraggioso volo pindarico che dal ‘700 va al ‘900, in apertura del suo Don Giovanni, prima ancora che appaia il protagonista, si premura di lasciare un messaggio allo spettatore per guidarlo all’interpretazione dell’opera, un messaggio che affida alle parole di Antonio Gramsci:

il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” (Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere)
La cinematografia di Losey mette volentieri il naso proprio nei “fenomeni morbosi più svariati”, ma lo fa con uno sguardo particolare, uno “sguardo esterno” quello del rifiutato, dell’escluso, dell’emigrato, di chi impara sulla propria pelle a salvarsi dal degrado ed uscirne vivo, umano, con dignità.

James Fox, Joseph Losey e Harold Pinter durante le riprese de "Il servo" (1963)

James Fox, Joseph Losey e Harold Pinter durante le riprese de "Il servo" (1963)

Il teatro nel cinema
“Cinema e teatro sono due forme d’arte che devono coesistere anche perché hanno bisogno l’una dell’altra: il teatro – come dicevo – è un meraviglioso parco attori per il cinema, e poi, lavorando per il cinema gli attori formatisi a teatro, imparano a essere più veri perché l’occhio implacabile della cinepresa rileva subito l’artificio”.

La sua profonda considerazione e sincera passione per il teatro arriva al suo apice quando gli accade di incontrare il più grande drammaturgo del ‘900 inglese: Harold Pinter. È l’inizio di una grande collaborazione artistica. Losey incontra Pinter che il drammaturgo, futuro premio Nobel, è all’inizio della sua carriera, fa l’attore, e sotto falso nome, Harold Baron, scrive atti unici.
La collaborazione con Pinter inizia negli anni Sessanta con "Il servo" (1963), il duello psicologico tra servo e padrone, con la magistrale interpretazione di Dirk Bogarde e James Fox. Il film che fa conoscere Losey al grande pubblico europeo. A detta del regista tra i suoi film più amati, forse anche perché tra i più sofferti.

Gli farà seguito "L’incidente" (1967) ancora con Sir Dirk Bogarde, che con Losey si può dire abbia dato il meglio e infine “Messaggero d’amore” (1971) con Julie Christie e Alan Bates.

Il critico cinematografico Pietro Bianchi parla del film "Messaggero d'amore" di Joseph Losey, 1972 - Archivi RSI

RSI Cultura 26.10.2022, 09:13

Sarebbe seguito il progetto sulla Recherche di Proust che però non vedrà mai la luce.
“Come lavoriamo insieme? Prima di scrivere, lunghe conversazioni e accanite ricerche, Harold mi mostra quello che ha scritto, ne ridiscutiamo insieme, lui riscrive e così via. Il nostro modo di lavorare non ha niente a che vedere con il sistema vigente a Hollywood negli anni Cinquanta”.
Nella officina di Losey la stretta collaborazione e interazione attiva non avviene solo in fase di elaborazione della sceneggiatura, ma avviene a tutti i livelli della produzione dei film, con le varie istanze che partecipano alla sua creazione: una delle regole fondamentali per lui. Dalla sceneggiatura al montaggio, passando naturalmente per il fondamentale lavoro attivo sugli attori, una lezione appresa in ambito teatrale.


“Io non sono uno di quei registi che pensa che l’attore deve scomparire, che usa l’attore come un manichino. Adoro gli attori. Per me l’attore è un essere pensante, con cui cooperare strettamente. Un attore con me ha diritto di dire: “No, non è così, questa cosa non suona giusta, questo personaggio non si comporta così” Viviamo in stretta relazione, si discute insieme giorni, settimane intere”.

James Fox in una scena di "The Servant"

James Fox in una scena di "The Servant"

L’eredità
“Se un film – qualunque sia lo stile usato dal regista – compie un passo avanti in direzione della forma, di una presa di coscienza, farà anche compiere un passo avanti al pubblico. Si devono realizzare delle opere che inquietandolo, stimolino la curiosità dello spettatore”.

Un ringraziamento al maestro del cinema per averci inquietato e fatto riflettere. Ci rimane però la curiosità per quel capolavoro mai realizzato, il film sulla Recherche, che se avesse trovato i finanziamenti sarebbe potuto essere il quarto capolavoro firmato Losey/Pinter. E così Proust fu fatale a Losey, come lo fu a Luchino Visconti.

Ma come può essere che l’opera di un grande del cinema come Joseph Losey risulti oggi sparita dalla circolazione. E siamo davvero certi che lo sia del tutto?
A me succede di riconoscere la sua lezione ("Il servo" docet) in certi perfetti movimenti di macchina nelle riprese delle scale in "Il filo nascosto" di Paul Thomas Anderson (2017) o di leggere nella filigrana di "Parasite" di Bong Joon-ho (2019) la voglia di descrivere con cinica precisione lo stesso impulso alla rivincita insita nelle classi costrette alla subalternità descritte da Losey.
Forse, come accade a molti grandi classici, anche la sua lezione è ritrovabile un po’ ovunque. Vero monumento di originalità e raffinatezza contenutistico e formale, la lezione di Losey resta indubbiamente tra le più grandi del cinema moderno, sul podio al pari di Renoir, Antonioni, Buñuel, Fellini, Visconti e come loro ha lasciato e continua a lasciare nella cinematografia contemporanea tracce indelebili e ancor visibili, frammentate qua e là, nel cinema di oggi.

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