Che non esistano più le star di una volta, è un luogo comune e anche una incontrovertibile verità. Non esistono più – tanto per limitarci all’ambito maschile – i Delon, i Redford, i Pacino, i Gere, i Clooney, i DiCaprio.
Cioè, sì, magari ti capita un Timothée Chalamet, o qualcuno capace di fare ancora film, moda, glamour, pettegolezzo e tutto quanto normalmente fa una star hollywoodiana. Ma è merce sempre più rara. Per trovare facce da cinema capaci di far volare farfalle nello stomaco dei fan e creare intorno a sé veri culti, bisogna guardare ai sessantenni. Club nel quale arriva su un tappeto rosso mai tanto proverbiale anche Keanu Reeves.
In effetti, ciò che stupisce della carriera di questo bassista, giocatore di hockey, editore di libri d’arte, motociclista nonché attore, nato a Beirut il 2 settembre 1964, è la persistenza. Reeves a vent’anni era protagonista di film per adolescenti; a trenta, era sull’orlo della depressione; a quaranta, era una star assoluta; a cinquanta, un’icona capace di alimentare la sua leggenda ruolo dopo ruolo; a sessanta, un meme. Che detta così sembra una caduta, e invece rappresenta l’apice della fama in quest’epoca strana.
I meme in questione sono effettivamente figurine molto condivise su internet (la mia preferita è il cosiddetto “Immortal Keanu”, che gioca sul suo essere apparentemente immune ai segni dell’invecchiamento), ma per estensione è un meme anche il suo personaggio pubblico: quello del tipo regolare, umano, simpatico, interessato agli altri. «Nicest guy in Hollywood», dicono le testate specializzate in celebrità: lontano, di conseguenza, dall’idea della star egomaniaca, che vive in un’altra dimensione rispetto alla gente normale. Keanu – che è uno di quelli abbastanza famosi da non avere bisogno del cognome – è generoso, educato. Normale, anzi meglio. E intendiamoci, mai come in questa epoca i ricchi e famosi sono impegnati a cercare di convincere il pubblico che loro sono, in fondo, uguali a chi li guarda, amici della porta accanto: prendete Taylor Swift, che su Instagram impacchetta regalini per i fan, che rimane in contatto con gli amici della scuola (anche se lei ovviamente non era una ragazza popolare, per carità!), che condivide i graffi inferti dai gatti di casa. Ecco, Keanu Reeves è riuscito a dare l’impressione di essere un tipo alla mano senza neppure avere uno straccio di profilo social. Se non è un capolavoro contemporaneo questo, non so cosa possa esserlo.
E nonostante la mancanza di quel tipo di comunicazione, il suo rimane un volto straconosciuto anche per le nuove generazioni. Nel 2019, il trailer del videogame Cyberpunk 2077 ha generato interesse mostruoso – hype, nella lingua globale di internet – grazie all’apparizione a sorpresa proprio di una versione digitale dell’allora già cinquantacinquenne Reeves. L’anno successivo, un pubblico di lettori americani probabilmente più anziano di quello di Cyberpunk 2077, ma egualmente numeroso, ha fatto volare via dagli scaffali delle librerie la commedia romantica How to marry Keanu Reeves in 90 days, scritta dalla bestsellerista newyorchese K.W. Jackson. All’inizio di quel racconto, una donna ormai adulta viene sconvolta dalla notizia che il suo attore preferito ha deciso di sposarsi. Cito da pagina 12: «Se Keanu stava mettendo la testa a posto, se si stava accasando, cosa significava questo per la mia, di vita?».
Ovviamente tutto questo c’entra poco con le capacità di attore di Keanu Reeves e con il suo percorso attraverso decenni di cinema americano, ma rende l’idea di come il suo status di divo vada molto oltre quello che vediamo sullo schermo. Keanu è parte della vita dei suoi fan. Keanu è nato per essere una star, e oggi appare un predestinato, nonostante il suo destino fosse tutt’altro che scritto.
Dopo un’infanzia logisticamente complessa – il padre aveva abbandonato la famiglia quando lui aveva tre anni, e la madre lo aveva portato con sé prima a Sidney, poi a New York e infine a Toronto, mentre lei viveva un secondo matrimonio e un secondo divorzio – il giovane Keanu si era fatto buttare fuori dalla scuola di recitazione della città canadese, dopo altre esperienze scolastiche non esattamente soddisfacenti, e aveva debuttato a vent’anni nella pièce teatrale Wolfboy: tutt’altro che un capolavoro, come dimostrano le critiche spernacchianti ricevute dai giornali dell’epoca. Era però uno spettacolo fortemente omoerotico, che prevedeva i giovani attori in scena vestiti solo di shorts bianchi («E li cospargevamo pure di olio… cosa potevi volere di più, per dieci dollari?», ha dichiarato in seguito il regista John Palmer): lì sarebbe nata la passione per Keanu della comunità LGBT, prima canadese e poi mondiale, pietra angolare del suo star power che meriterebbe una trattazione a sé (infatti esistono diversi saggi accademici sull’argomento).
Quella di essere poco amato dalla critica è diventata una costante della carriera di Keanu Reeves negli anni successivi, e tuttavia possiamo scommettere che non sia mai stata la sua preoccupazione principale, perché la vita gliene aveva sempre offerte di più importanti. La sua stessa adolescenza irregolare era stata la causa di almeno un decennio di casting che gli offrivano sempre lo stesso ruolo: lo studente di college bello e, in un modo o nell’altro, problematico. Intorno ai venticinque anni, la sua vita era migliorata, ma rimaneva costellata di incidenti, soprattutto motociclistici: uno particolarmente pericoloso, subìto dopo aver fatto il provino per Le relazioni pericolose di Stephen Frears, lo avrebbe lasciato senza milza. Tra i trenta e i quaranta Reeves avrebbe visto di molto peggio: nel 1993 la morte di uno dei suoi più cari amici, River Phoenix; poi quella della sua prima figlia, sopravvissuta solo poche ore dopo il parto. L’attrice che avrebbe dovuto essere la madre della bambina, Jennifer Syme, è rimasta uccisa poco più di un anno dopo in un incidente stradale. Qualche tempo dopo, Reeves ha dichiarato alla rivista Parade: «Il dolore cambia forma, ma non finisce mai. La gente pensa che si possa affrontare. Che si possa arrivare a dire “È passato e sto meglio”. Ma non è vero.»
Siccome l’esistenza umana è strana e contraddittoria, è proprio quel periodo a segnare l’ascesa di Keanu Reeves all’Empireo di Hollywood: la notizia della morte di River Phoenix, ad esempio, lo coglie mentre sta filmando Speed, uno dei suoi maggiori successi. E nel 1999 arriva Matrix, il suo ruolo più importante, il film capace di incassare quasi mezzo miliardo di dollari e soprattutto diventare uno dei prodotti culturali più rilevanti dell’ultimo quarto di secolo. Non è solo una questione di scene che hanno infiltrato l’immaginario in modo così definitivo che continuano a tornare nel discorso collettivo – pensate ad esempio alla “pillola rossa” diventata simbolo politico per la destra americana – ma anche di elementi di stile cinematografico, come le scene al rallentatore del cosiddetto bullet time, oggi vero e proprio luogo comune per i film d’azione hollywoodiani. Per entrare dentro quella storia rivoluzionaria, Reeves si prepara leggendo (tra gli altri, Simulacri e simulazione di Jean Baudrillard) e allenandosi nel kung-fu (con il maestro e coreografo Yuen Woo-Ping, che avrebbe poi lavorato anche su La tigre e il dragone e Kill Bill), dando l’ennesima prova di professionalità, oggi riconosciutagli da tutti coloro i quali hanno avuto occasione di lavorare con lui.
E a proposito del lavoro: già milleduecento parole abbondanti, e quasi non ho parlato di cinema. Forse è l’ennesima dimostrazione che Keanu Reeves è una di quelle – sempre più rare, scrivevo appunto milleduecento parole più sopra – star capaci di trascendere i ruoli interpretati, per diventare personaggio anche fuori dallo schermo. Nel caso di Reeves, un personaggio dalle molte facce, ma sempre positivo, e capace di affascinare i gruppi demografici più diversi, per età, genere, inclinazioni personali e politiche, dieta mediatica. Come sia stato possibile, probabilmente non lo sa neppure lui. E in ogni caso, non ce lo svelerebbe mai. In questo momento della sua vita e della sua carriera, si limita a prolungare la sua miracolosa persistenza nell’immaginario occidentale, con sette film in programma nei prossimi tre anni. Se arriverà davvero all’immortalità, invece, lo sapremo solo nei prossimi sessanta.