Cinema

L’odio e i suoi fratelli

Il cinéma banlieusard esiste. Ma non è profezia, è cronaca

  • 24.07.2023, 11:50
  • 14.09.2023, 09:03
film banlieusards
Di: Michele Serra 

Se è vero che – come hanno scritto molti tra i più diffusi quotidiani europei – bastava seguire l’hashtag #emeutes per vivere in diretta sui social network i disordini che hanno sconvolto le città francesi, un post dietro l’altro “come scene di un film”, lo è altrettanto il fatto che, tra quelle immagini vere, si siano infiltrate quelle di un vero film. Molti utenti di Twitter infatti hanno espresso il loro stupore nel vedere chiare analogie visive tra ciò che stava succedendo sotto le loro finestre e Athena, lungometraggio di Romain Gravas uscito l’anno scorso. Alcuni hanno montato insieme immagini provenienti dal film e altre provenienti dai molti video amatoriali dei succitati émeutes. E pochi si sono fatti sfuggire l’occasione di mettere online battute piuttosto prevedibili: “Stanno girando Athena 2”; “Non abbiamo bisogno di Netflix, siamo già dentro Athena 2”; “E pensare che qualcuno diceva che Athena era poco credibile” e così via, con infinite variazioni sul tema. Chi ha definito “profetici” i piani sequenza girati dal regista francese figlio di Costa-Gavras, però, forse non ha usato la parola più corretta: si può parlare ancora di profezie, quando da ormai tre decenni il cinema francese racconta storie di tensione che esplode nelle strade delle banlieue?

Tutto è cominciato, lo sappiamo, nel 1995, quando Mathieu Kassovitz lo travolse con L’odio, portandosi a casa il premio per la miglior regia a Cannes e lanciando la stella di Vincent Cassel. L’odio rappresentava perfettamente la violenza e il conflitto tradizionalmente associati alla banlieue, metteva in luce la mancata integrazione delle minoranze etniche nella società francese, poneva la questione dell’identità dei francesi della cosiddetta seconda generazione (oggi la generazione è la terza, la quarta, ma la paura di non sentirsi francesi sembra la stessa degli anni Novanta). Soprattutto, però, L’odio riusciva a non essere un monolite, mostrando ad esempio il senso dell’umorismo (per quanto amaro, per quanto disperato) come elemento fondamentale del carattere del banlieusard, e atteggiamento scelto quasi naturalmente per criticare e denunciare l’assurdo sistema, di esclusione prima e repressione poi, che gli abitanti delle banlieue avevano subito. L’odio è stato un film rivoluzionario, e una reazione iconoclasta contro il cinema francese classico e perfino contro il nuovo cinéma du look di quegli anni – pur se in qualche modo ne rappresentava anche una continuazione, vista l’attenzione di Kassovitz allo stile. Al di là delle dissertazioni critiche, però, rimane il dato storico: con L’odio è nato in Francia il nuovo cinema banlieusard.
Ed è forse il caso di ricordare che Kassovitz iniziò a scrivere la sceneggiatura di quel film intorno al 6 aprile 1993, il giorno in cui Makome M'Bowole, diciassettenne franco-congolese, fu colpito da un proiettile alla testa mentre si trovava in custodia presso la stazione di polizia di Grandes-Carrières, nel diciottesimo arrondissement di Parigi. La morte “accidentale” di M'Bowole, è solo uno dei tanti casi che coinvolgono la polizia francese negli ultimi decenni. I più gravi sono definiti bavures, che letteralmente significherebbe solo “sbavature”.

Tornando al cinema, non stupisce certo che qualcuno abbia visto un cerchio che si chiudeva, quando Kassovitz e Cassel si sono alzati in piedi per applaudire il regista Ladj Ly alla fine della proiezione del suo I miserabili, durante l’edizione 2019 del festival di Cannes. Ly ha infatti riportato il grande pubblico in sala a vedere un film orgogliosamente banlieusard, realmente ambientato a Montfermeil, quintessenziale cité della cintura parigina – e, per Ly, semplicemente casa. Interpretato da molti attori non professionisti, I miserabili sembra voler citare e rovesciare L’odio a ogni inquadratura, a partire naturalmente dal trio protagonista: nella pellicola di Kassovitz era formato da ragazzi di quartiere, in quella di Ly sono poliziotti. Disordine e ordine, verrebbe da dire; ma cambiare l’ordine (scusate) degli addendi non modifica granché i risultati tragici dell’esistenza nelle banlieue.

Nel quarto di secolo passato tra L’odio e I miserabili, il cinema banlieusard non è rimasto silente.
Wesh wesh qu'est-ce qui se passe? di Rabah Ameur-Zaïmeche nel 2001 tornava sulle dinamiche in atto tra gli abitanti delle periferie e la polizia. La periferia in questione peraltro, era la stessa di Ladj Ly, la famigerata Cité des Bosquets di Montfermeil, i cui palazzoni sono stati abbattuti nel 2020.
Diamante nero di Céline Sciamma e Divines di Houda Benyamina, usciti a un anno di distanza tra 2015 e 2016 ed entrambi disponibili anche con il doppiaggio italiano, non hanno avuto solo il merito di spostare lo sguardo sull'esperienza femminile nelle periferie e nel mondo della piccola criminalità, ma hanno contribuito a costruire il linguaggio del cinema indipendente europeo di questi anni. Chouf di Karim Dridi, sempre nel 2016, potrebbe essere un classico Scorsese d’annata, non fosse ambientato a Marsiglia. Vita nelle banlieue, del 2019, è un caso particolare non solo perché dietro la macchina da presa c’è Kery James, uno dei rapper più noti di Francia, ma anche perché la distribuzione su Netflix sembra essere la definitiva dimostrazione che il cinema “di periferia” francese rappresenta ormai un vero e proprio genere, degno di entrare nel catalogo del più grande servizio di streaming mondiale – anche se in effetti quest’ultimo si limita generalmente a classificarli come “dramma a sfondo sociale”. Attendiamo presto la tag dedicata “Cinéma Banlieusard”, massima consacrazione mainstream degli strani anni che viviamo.

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