Cinema

La lista nera di Hollywood

Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, Hollywood fu scossa dal terrore: era la caccia ai comunisti. Un sistema pronto a negare diritti fondamentali a chiunque fosse sospettato di simpatizzare per l’ideologia sovietica

  • 10.05.2024, 11:22
  • 10.05.2024, 11:22
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Hollywood, 1947

Di: Nicola Lucchi 

«Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione» recita il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America. «O che limitino la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti». Negli anni, tra leggi obsolete e diritti violati, anche la democratica America ha saputo però dare sfoggio delle proprie contraddizioni. Sono numerosi gli attentati alla libertà di espressione. Una libertà di cui Hollywood si vide privata in uno dei decenni più neri della sua storia.

Nei primi anni Trenta, lo Screen Writers Guild era il sindacato più attivo di Hollywood ed era costituito per lo più da membri del Partito Comunista degli Stati Uniti d’America. Quando Stalin diede seguito alle Grandi purghe nonché al patto di non aggressione con Hitler (1939), il governo degli Stati Uniti iniziò però a porre molta attenzione al “fenomeno rosso” e ai legami tra cittadini americani e comunismo.

Fu l’inizio di una caccia alle streghe che, come ogni discriminazione degna di questo nome, si basava su passaparola e sospetti spesso privi di sostanza. Per finire sulla blacklist bastava essere denunciato da un informatore. L’unico modo per farla franca era invece quello di presentarsi di fronte alla Commissione per le attività antiamericane. Il quinto emendamento della Costituzione, a proposito di diritti negati, avrebbe dovuto garantire la possibilità di non deporre contro se stessi, ma chi si fosse appellato a tale legge sarebbe stato automaticamente ritenuto colpevole, inserito nella lista nera e licenziato. Una lista che presto comprese non solo ex membri del partito comunista, ma chiunque avesse idee progressiste.

Martin Dies Jr., allora presidente della Commissione, pubblicò un rapporto nel quale sosteneva la forte diffusione del comunismo a Hollywood. Un sospetto confermato quando John L. Leech, ex membro del partito comunista americano, fece il nome di 42 personalità di Hollywood ritenute vicine all’ideologia sovietica. Il 22 settembre del 1947, l’Hollywood Reporter pubblicò i nomi degli accusati, tra i quali spiccavano celebrità come Humphrey Bogart, Katharine Hepburn e Melvyn Douglas. Dei quarantadue nominati, dieci, i cosiddetti “Hollywood Ten”, si rifiutarono di testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane. Diciannove furono dichiarati ostili.

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Hollywod Ten

Ci si potrebbe aspettare solidarietà tra addetti ai lavori, se non fosse che i grandi produttori di Hollywood, per evitare grane con il governo, furono tra i primi a testimoniare contro i propri stessi collaboratori. Walt Disney fece il nome di vari talenti che aveva messo sotto contratto, additandoli come comunisti. Ronald Regan, allora ancora dedito all’intrattenimento nonché presidente dello Screen Actors Guild, denunciò che una minoranza del proprio sindacato stava attuando “tattiche comuniste”. L’attore Adolphe Menjou, convinto repubblicano e membro attivo della Motion Picture Alliance for the Preservation of American Ideals, si definì un cacciatore di streghe qualora le streghe fossero i comunisti, e dichiarò: «Io sono un perseguitatore dei rossi, mi piacerebbe vederli tutti in Russia». Dal canto suo, il presidente della Warner ritenne un privilegio poter aiutare la Commissione nello stanare i comunisti e dichiarò di averne già licenziati molti.

Il tentativo di ribellarsi fu ingenuo. Il regista John Huston, insieme a Lauren Bacall, Judy Garland e altre star di Hollywood, formò un comitato di difesa del primo emendamento, fallendo miseramente la missione. La caccia ai rossi era ormai iniziata e, in un clima di guerra fredda, non aveva certo intenzione di fermarsi. Anche il ricorso degli “Hollywood Ten” si rivelò fallimentare. Malgrado si giunse alla Corte suprema, i dieci furono condannati al carcere. Tra questi, il regista Edward Dmytryk si disse pronto a collaborare con la Commissione e, dichiarando di essere stato comunista, denunciò altri colleghi, garantendosi il rientro al lavoro.

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Dalton Trumbo

La cosiddetta Dichiarazione Waldorf, seguita alla denuncia dei dieci, recitava: «Licenzieremo o sospenderemo immediatamente senza compenso e non riassumeremo nessuno dei dieci finché non sarà assolto o si sarà purgato dal disprezzo e dichiarerà sotto giuramento di non essere comunista». Malgrado sette dei dieci fossero sceneggiatori, il sindacato di categoria si unì ai collaborazionisti della Commissione. Non contento di questo, autorizzò le produzioni a escludere dai crediti dei film i nomi di coloro che non si erano ancora liberati dalle accuse. Chi non fu licenziato fu così costretto a lavorare per anni sotto pseudonimo. Il caso più emblematico e famoso, grazie anche al film L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo (2015), fu quello dello sceneggiatore che porta il nome della pellicola, che fino al 1960 non avrebbe più visto comparire il suo vero nome su un film, compresi grandi classici quali Vacanze romane (1953) di William Wyler e Spartacus (1960) di Stanley Kubrick. Proprio quest’ultimo, in certa misura, contribuì alla fine della lista nera, quando l’attore Kirk Douglas annunciò pubblicamente che Trumbo ne era lo sceneggiatore. Solo qualche mese prima, Otto Preminger aveva annunciato che proprio Trumbo sarebbe stato lo sceneggiatore del suo prossimo film: Exodus (1960).

Riflesso della società americana e delle sue incoerenze, dopo più di un ventennio la fabbrica dei sogni chiamata Hollywood tornava a respirare, pronta a restituire, presto o tardi, un altro po’ della propria ipocrisia.

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  • Mario Fabio

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