Serie TV

M come Mitomane

L’essenza del Mussolini di Scurati nella nuova serie Sky

  • 2 ore fa
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Luca Marinelli in "M"

Di: Valentina Mira 

Estetica post-futurista, esaltazione fallica, manganelli e samurai. Il regista britannico Joe Wright regala agli spettatori un sogno acido, allucinato e allineato, nel bene e nel male, al gusto del tempo nella Serie TV: M, magnificamente interpretata da Luca Marinelli.

M è un mitomane.
M è uno che ama dare alle donne che ha sfruttato delle pazze, perché se la loro verità passa per bugia allora la sua bugia passa per verità.
M è uno che lascia che il lavoro sporco lo facciano le sue squadracce.
M è solo facciata. È il riflesso dei bisogni altrui. Per ottenere il soddisfacimento dei suoi, di bisogni.
M è un clown, un pagliaccio, un traditore.
M è uno con l’ego ipertrofico a nascondimento di una ferita narcisistica, uno di quelli che hanno bisogno di masse ad applaudirli, e soprattutto di un falso Sé (“duce, duce”).
M si adegua ai tempi, dopo averli annusati come fanno alcuni esemplari di quella bestia chiamata uomo. Prende il socialismo, lo tradisce, lo svende, lo perverte.
M è paranoico, bugiardo, ipocrita e violento: è un prete travestito da clown, un clown travestito da prete.

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M non è Mussolini: è il Mussolini di Scurati.
La distinzione è implicita, ma deve essere palesata e ricordata per godersi la serie senza aspettarsi un documentario. È come in Blonde di Joyce Carol Oates, quando l’autrice ricordava di aver scritto un libro ispirato a Marilyn Monroe, non su Marilyn Monroe (salvo poi vendere i diritti del romanzo per un film di tre ore in cui si parla direttamente dell’attrice, con tanto di video della stessa e sovrapposizione tra il personaggio di fantasia e la persona vera). Il Mussolini di Scurati prende le mosse da quello della scuola di Renzo De Felice, che certamente scrisse i libri più completi a riguardo ma la cui interpretazione è finalmente superabile; per esempio, la distanza tra fascismo di movimento e fascismo di governo non fu tale. Inoltre, Balbo non era un gerarca buono rispetto a Mussolini. 

C’è una differenza importante tra i libri di Antonio Scurati e la serie: nei romanzi Mussolini è sì protagonista, ma ci sono i punti di vista di altri fascisti e perfino di qualche antifascista. Nella serie c’è solo Mussolini. E anche il fatto che gli italiani fossero più mussoliniani che fascisti - come lascia intendere - è parte della narrazione defeliciana.

Le stesse cose che alcuni considerano punti di forza della serie di Joe Wright tratta da M di Antonio Scurati, altri le considerano punti di debolezza. Siamo nell’ambito della soggettività quando commentiamo gli aspetti formali di M. Un fascismo reso quasi cool, un’estetica per così dire post-futurista: lo schermo che si divide e frammenta in cerchi, la velocità, l’esaltazione fallica ovunque: manganelli, braccia tese, la stessa locandina in cui il saluto romano diventa un pendio alla “Der Wanderer” di Friedrich. E poi bandiere con teschi e dita medie fuori contesto storico. Il gusto è a tratti punk a tratti pop, abbastanza da infastidire, da risultare notevolmente e volutamente disturbante.

Una delle prime critiche che la serie ha ricevuto - ancor prima rispetto alla sua uscita - riguarda l’aspetto fisico del protagonista, Luca Marinelli. Perché scegliere un attore così bello per interpretare un uomo così indesiderabile, quasi mostruoso dentro e fuori? E no, non è bastato imbruttirlo par farcelo somigliare. Anche questo è disturbante: la sua bravura è innegabile e sarà di certo premiata; purtroppo non pare affatto Benito Mussolini. È il punto d’incontro tra il maschio italiano medio con la chierica e Silvio Berlusconi. Il lavoro è tutto di recitazione, e naturalmente da quel punto di vista Marinelli è un fuoriclasse.

La chiave scelta è quella tragicomica, o meglio grottesca, e ciò è interessante ma bizzarro per il racconto di un dittatore. Forse l’incapacità di affrontare il tragico andrebbe indagata. Forse nel registro emotivo la rappresentazione filmica su Mussolini è ancora parzialmente nell’ambito della rimozione: ridere del dittatore per non guardare nel baratro, non guardare nel suo per non guardare nel nostro.

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Luca Marinelli in "M"

M è stato paragonato a Fleabag per la rottura della quarta parete, la ricerca della complicità dello spettatore. Significa che Mussolini parla con chi lo guarda. Significa costringere la persona di oggi a diventare interlocutore della persona che per antonomasia non deve più esserle interlocutrice. Una scelta disturbante anch’essa, quasi violenta.

Proprio a causa dell’estetica scelta e del punto di vista - quello del duce - quando viene messo in scena lo stupro di una segretaria, la delicatezza umana e il rispetto vengono completamente meno. Lo osserviamo senza riguardo attraverso una porta a vetri. Vediamo il viso di lei schiacciarsi lì, assumere fattezze quasi suine, con il naso all’insù, nessuno spazio per il dolore. E questa identificazione del punto di vista con quello fascista è disgustosa. Voluta, di certo, e si potrà ribattere che trattasi di una critica e una denuncia. Resta nondimeno disgustosa.

Le scelte operate per M - Il figlio del secolo sono e restano interessanti. Che dividano è sano e vitale, a fronte di un racconto il cui contenuto sa necessariamente di morte. La serie su quel pavido piccolo uomo di M - i suoi piani di conquista del potere, le sue alleanze utilitaristiche, il suo terrore per il femminile in ogni forma e manifestazione - è anch’essa figlia del secolo. Come tale, ci avverte che non tutti gli uomini sono Marinelli, ma diversi uomini possono essere M. E ci costringe a ricordare che ci fu una volta un popolo che fu indotto ad agire come se che quel mostro fosse il migliore tra di noi. Non lo si scordi, e sempre ci si guardi da chi dice “noi” e intende “io”.

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